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A visit from the goon squad Jennifer Egan

Norwood Charles Portis

• * Fuori a rubare i cavalli* Per Pettersen

The Harvard psychedelic club Don Lattin

Ball of fire Stefan Kanfer

Unincorporated persons in the late Honda dynasty Tony Hoagland

Libri letti

•* Sposami* John Updike

• * The psychopath test* Jon Ronson

Friday night lights: a town, a team, and a dream H.G. Bissinger

La storia di Mina David Almond

Ho letto per la prima e ultima volta John Updike intorno ai vent’anni: ho divorato tutti i libri di Coniglio pubblicati fino a quel momento, e non vedevo l’ora di essere cresciuto abbastanza per capirli. Tutto quel mondo di adulteri, infelicità, ambizione e colpa mi sembrava assolutamente elettrizzante e al tempo stesso sconcertante. Che roba era? E perché, a venticinque anni, non ero ancora abbastanza adulto da aver vissuto almeno qualcuna di quelle esperienze? Che cosa c’era di sbagliato in me? Ho il sospetto di non avere più letto altri romanzi di Updike semplicemente perché mi facevano sentire inadeguato in modi che prima non avevo neanche considerato. Nuove forme sconosciute di inadeguatezza di cui potevo tranquillamente fare a meno, visto che già non sapevo che pesci prendere con quelle conosciute.

Non so perché, ma una copia non letta di Sposami mi ha strizzato l’occhio dalla mia libreria proprio quando ero in partenza per gli Stati Uniti per un viaggio di lavoro. Sulla copertina del libro, Paul Theroux giura che “Updike non ha mai raccontato così bene l’inferno del matrimonio”, ma posso assicurare voi (e mia moglie) che ad attrarmi non è stata questa allegra promozione. Forse volevo mettermi di nuovo alla prova, un quarto di secolo dopo: mi ero avvicinato almeno un po’ all’età adulta? Finalmente potevo anch’io riconoscermi in quelle situazioni domestiche?

“Stupida troia”, disse lui, e la scaraventò ripetutamente contro il materasso, facendola rimbalzare. “Datti una regolata, cazzo. Hai avuto quello che volevi, no? Eccola, la tua felicità coniugale”. Lei gli sputò in faccia, ptù, come un gatto, che agisce ancora prima di pensare: lo spruzzo di saliva le ricadde sul viso e per così dire la risvegliò.

Devo dire, con un certo imbarazzo, che chez nous la vita è solo molto raramente così. C’è il periodo delle vacanze, certo, e qualche sabato sera ogni tanto, soprattutto a gennaio e a maggio quando l’Arsenal, la mia squadra di calcio del cuore, di solito viene eliminata dalle principali competizioni. Ma, parola mia, non potrei dire che tocchiamo questi vertici drammatici con una frequenza tale da consentirmi un sussulto di identificazione. E sono rimasto ancora più intimidito dal modo in cui si conclude la scena, metà pagina e 14 righe di dialogo dopo:

“Sei un brav’uomo”. Lei lo abbracciò, soffocando una dichiarazione d’amore.

Diffidente, lui voleva dormire. “Buona notte, tesoro”.

Ora, non voglio accusare nessuno, e comunque mia moglie è una persona tranquilla e comprensiva. Ma la verità è che ogni volta che la prendo a parolacce scaraventandola ripetutamente sul materasso lei non mi dice mai che sono “un brav’uomo”: ha la tendenza a tenermi il muso per ore. Questo significa che, a mia volta, non ho mai avuto il coraggio di dirle “Buona notte, tesoro”, per lasciarci alle spalle quello sfortunato episodio. In altre parole, è colpa di mia moglie se non siamo ancora updikiani.

Oltre ai litigi, mi hanno lasciato perplesso alcuni riferimenti al sesso.

Nonostante fosse sposata da dieci anni e avesse avuto altri uomini prima di Jerry, Sally aveva un modo meravigliosamente virginale di fare l’amore, semplice e veloce.

Ecco, è proprio quel che vogliamo noi signori: donne sessualmente esperte e appassionate, ma al tempo stesso non troppo, insomma, volgari. “Meravigliosamente virginale”? Il mio psicoanalista passerebbe i cinquanta minuti più spassosi della sua intera vita professionale, se mai mi capitasse di usare questa combinazione di avverbio e aggettivo in una seduta.

Sposami è un libro appassionante, ma terribilmente deprimente nella sua convinzione che estirpare l’infelicità dalla monogamia sia come cercare di cavare sangue da una rapa. Spesso ci preoccupiamo di come la tecnologia renda obsoleta la narrativa: non è la prima volta che un libro scritto nell’ultimo quarto del ventesimo secolo mi porta a chiedermi se nei rapporti tra uomini e donne non sia cambiato qualcosa di fondamentale. Oggi non crediamo più che mariti e mogli siano condannati al sospetto, all’inimicizia e al disprezzo, vero? O sto solo facendo di nuovo la figura dello scemo? Probabile. Di solito la faccio.

È preoccupante, ma mi sono riconosciuto molto di più nel test di Jon Ronson, che non in Sposami (non ho intenzione di ripetere il titolo del libro di Ronson. Vi toccherà guardare nella colonnina qui a sinistra, magari non ne avrete voglia, non lo farete e la mia immagine ne guadagnerà). “Parlantina/simpatia superficiale”? Be’, ho i miei momenti, anche se me lo dico da solo. A proposito, vi trovo bene: siete dimagriti? “Mancanza di obiettivi rea­listici a lungo termine”? Io non definirei l’immortalità letteraria esattamente “irrealistica”. È più o meno quello che è successo a Chaucer e Shakespeare, e io sono di gran lunga meglio. “Autostima grandiosa ed esagerata”? Ah, di questo almeno posso dichiararmi innocente. “Bisogno di stimolazione/tendenza alla noia”? Mentre scrivevo, mi sono interrotto a metà di una frase per giocare a Plants vs. zombies, anche se dopo un paio d’ore mi sono stufato, quindi non sono irrecuperabile. “Scarso controllo degli impulsi”. Anche qui c’è un barlume di speranza, perché ho appena spento la mia ultima sigaretta e mangiato il mio ultimo biscotto.

Jon Ronson, come sa chi ha letto Loro: i padroni segreti del mondo o L’uomo che fissa le capre, è un intrepido saggista esperto e appassionato di squilibrati e fanatici. Il primo dei due libri è una galleria di estremisti di tutte le risme, mentre il secondo parla di quell’unità dell’esercito statunitense convinta che un giorno le guerre si vinceranno grazie al controllo della mente e a una schiuma paralizzante. The psychopath test – come suggerisce il titolo – va dritto al punto della questione.

Comincia con un giallo: perché un gruppo di accademici, per lo più neurologi, ha ricevuto il libro di un certo “Joe K”, interamente composto da una serie di messaggi criptici e di buchi? Non sapendo cosa fare, i neurologi pensano che Ronson sia la persona giusta per risolvere il mistero: e hanno visto giusto, perché è proprio quello che ha fatto. Strada facendo, Ronson incontra un uomo che si è finto pazzo per sfuggire al carcere e ora non riesce a convincere nessuno di essere sano di mente; diversi scientologi che si battono contro la psichiatria, cosa che gli scientologi tendono a fare; l’autore del test che dà il titolo al libro, Bob Hare; e un top manager così spietato che se fosse sottoposto al test avrebbe barrato qualche casella di troppo (secondo Bob Hare, siamo circondati di psicopatici in posti chiave che gli consentono di usare e abusare della loro autorità).

Come tutti i libri di Ronson, The psychopath test è divertente, terrificante e provocatorio: non mi era mai venuto in mente, per esempio, che l’assurda guerra degli scientologi contro la psichiatria potesse avere qualche fondamento, ma il racconto di Ronson degli altrettanto assurdi esperimenti e trattamenti praticati da autorevoli psichiatri fa riflettere.

Se siete lettori abituali di questa rubrica e avete una vita poco interessante, forse state pensando: “Ehi! Ma ha letto solo quattro libri!”. Potrei dare diverse spiegazioni di questo fatto, ma le più pertinenti sono queste:

1) Sono stato crudelmente indotto con l’inganno a cofondare un laboratorio di scrittura per ragazzi qui a Londra, dietro la facciata di uno strano negozio (e se state a San Francisco non vi sognate di copiare questa idea, a meno che non vogliate avere a che fare con i nostri avvocati. Ma non vedo perché dovreste aver voglia di spendere migliaia di ore e un milione di sterline alla settimana in questo modo).

2) Ho passato un bel po’ di tempo a guardare i Dillon Panthers, la squadra di football americano protagonista della straordinaria serie tv Friday night lights.

In altre parole, il tempo per la lettura è stato limitato, anche durante il giorno, e metà delle letture che ho fatto sono legate alle attività di cui sopra. Lo straordinario saggio di H.G. Bissinger, da cui sono stati tratti prima un film e poi l’omonima serie tv, parla dei Permian Panthers, la squadra di football di un liceo di Odessa, in Texas, che gioca regolarmente – o almeno giocava negli anni novanta, quando è stato scritto il libro – davanti a un pubblico di ventimila spettatori. In Europa non esiste un equivalente del football studentesco, per diverse ragioni: non ci sono borse di studio per lo sport, tanto per cominciare, e in un paese come l’Inghilterra è difficile vivere a più di un’ottantina di chilometri dalla sede di una squadra professionistica. In ogni caso, se negli Stati Uniti i giovani talenti sono così malleabili è perché gli sport americani si sono rivelati poco interessanti per il resto del mondo: i calciatori in erba di Londra e Manchester non devono competere solo tra loro, ma con ragazzi che arrivano dall’Africa o dall’Asia. In questi ultimi anni, è capitato spesso che l’Arsenal abbia giocato senza neppure un calciatore inglese nell’undici di partenza. Il nostro giocatore migliore è spagnolo, e una delle nostre migliori promesse è giapponese, attualmente in prestito a una squadra olandese. Quindi, l’idea che le aspirazioni di un’intera comunità siano rappresentate da atleti adolescenti locali è strana, anche se non priva di attrattiva.

La realtà, come ce la racconta Bissinger – che è andato a vivere a Odessa per un anno, ha frequentato giocatori, allenatori, tecnici e tifosi, e quindi sa di cosa parla – ha anche un lato più oscuro. Ho scoperto che nella provincia texana non ci sono tanti liberal come poteva far credere la serie tv: a Dillon la gente è apertamente antirazzista, parla di arte o cita la grande letteratura (in un episodio della terza stagione si vede distintamente il simpatico imbranato Landry Clarke leggere Alta fedeltà, il mio primo romanzo: lo considero uno dei più grandi successi della mia carriera di scrittore. E scusate se tiro fuori questa storia, ma dovevo assolutamente dirlo a qualcuno). A Odessa, la controparte reale di Dillon, il razzismo non è così malvisto e non si leggono tanti capolavori letterari. Bissinger adora il football e ama la squadra, ma sa anche essere molto efficace quando parla del prezzo pagato dai ragazzi per questa ossessione per il football. Non ci sono solo quelli che non ce la fanno o che si infortunano strada facendo e vengono scartati come ossi spolpati (e per di più sono catastroficamente ignoranti): i ragazzi che non sanno giocare a foot­ball sono considerati delle seminullità, le ragazze passano metà del loro tempo a fare le cheer­leader e a preparare dolci per i giocatori, e gli studenti con interessi più alti sono completamente ignorati. Nella stagione in cui Bissinger ha seguito la squadra, il costo delle videocassette realizzate in tempo reale per consentire agli allenatori di analizzare le partite appena giocate è stato di 6.400 dollari, contro i 5.040 del budget dell’intero dipartimento di inglese. E la squadra ha usato jet privati per le partite fuori casa in più di un’occasione. Non è fantastico quanto costi poco trasmettere la passione per l’arte? Forse ho tratto la conclusione sbagliata da questo dato.

La storia di Mina di David Almond è uno straordinario libro per bambini dell’autore di Skellig, uno dei migliori romanzi per tutti pubblicati negli ultimi quindici anni. Questo nuovo lavoro è una specie di prequel di Skellig, che ha per protagonista la bambina della porta accanto. In realtà, però, è anche un manuale per tutti quelli interessati all’alfabetizzazione e all’insegnamento, così come li hanno vissuti o li vivono ancora loro, i loro figli o i figli di chiunque altro.

Perché dovrei scrivere qualcosa, così che qualcuno possa dire che sono molto al di sotto della media, al di sotto della media, nella media o di molto superiore alla media? Che cos’è la media? E quelli che scoprono di essere molto al di sotto della media? Che senso ha stabilirlo, e come li farà sentire per il resto della vita? E William Blake scriveva perché qualcuno gli aveva detto di farlo? E che voti avrebbe preso, comunque? “Agnellino, chi ti fece? Sai chi ti fece?”. Allora, che livello è questo?

Ho molto apprezzato l’amaro disprezzo con cui Almond parla del modo con cui passiamo al setaccio i nostri figli come se fossero patate, perché una volta, in una prima fase cruciale della mia carriera scolastica, sono stato giudicato al di sotto della media, su tutta la linea. E solo da poco ho ritrovato la sicurezza necessaria per dire che quel giudizio era sbagliato o come minimo inutile. Io credo di essere, come tutti, al di sopra della media in certe cose e molto al di sotto in altre.

La storia di Mina è un romanzo letterario per ragazzi, una visione mistica del mondo, un libro pieno di cose divertenti da fare in casa quando fuori piove (“Attività straordinaria: scrivi una poesia che ripete una parola e ripete una parola e ripete una parola, finché quella parola non perde quasi completamente di significato”), uno studio sulla solitudine e il dolore, che ho trovato più convincente di metà dei romanzi che leggo di solito. Non può essere giusto, e non permetterò che lo sia. A scopi puramente letterari, quindi, ora andrò a insultare mia moglie e a scaraventarla su e giù su un materasso. In questo momento è al piano di sopra che aiuta il più piccolo dei miei figli a fare i compiti. L’aspetta una bella sorpresa.

*Traduzione di Diana Corsini.

Internazionale, numero 896, 6 maggio 2011*

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