Libri letti
Fuori a rubar cavalli, Per Petterson
Ten thousand saints, Eleanor Henderson
Elia Kazan, Richard Schickel
L’intelligenza erotica, Esther Perel
Libri comprati
Ten thousand saints, Eleanor Henderson
Elia Kazan, Richard Schickel
Monogamia, Adam Phillips
Your voice in my head, Emma Forrest
Il giovane Stalin, Simon Sebag Montefiore
The sex diaries, Bettina Arndt
Memorie dell’aldilà, Machado de Assis
Furious love, Sam Kashner e Nancy Schoenberger
So che siete più giovani di me, perché ormai quasi tutti lo sono. Immagino che se vi siete fermati a leggere questa rubrica v’interessino i libri, e se leggete il resto della rivista probabilmente nutrite una profonda passione anche per altre forme d’arte. Da qui a dire che avete una vita sessuale complicata, di dubbia moralità e quasi certamente sgradevole, il passo è breve. E lo dico con il massimo distacco di cui sono capace. Quindi, prima di parlare di L’intelligenza erotica, il libro di Esther Perel sul sesso monogamico, suppongo di dovervi chiarire un paio di punti.
Primo: la monogamia è quella cosa per cui andate a letto con una sola persona. E non parlo di una sola persona per la durata di un festival rock, di una proiezione di un film d’autore, di un reading di poesia o che so io. A volte l’impegno può protrarsi per intere settimane, mesi perfino (lettori sposati: forse nella prossima rubrica tornerò sull’argomento, anche se ho il sospetto che non siate ancora pronti per fare i conti con la triste realtà).
Esther Perel è stata così intelligente da riconoscere che una piccola minoranza di monogami ogni tanto possa provare un senso di inspiegabile e indefinibile insoddisfazione per la strada imboccata: niente di serio, e certamente niente che li porti a mettere in discussione la loro scelta (i rapporti monogamici raramente falliscono, a meno che uno dei partner sia sessualmente attivo). Perel ha scritto un libro che potrebbe aiutarli in quel delicato frangente. È un mercato di nicchia, ovviamente, l’equivalente di un manuale per padroni di animali domestici alcolisti. È fantastico che qualcuno l’abbia scritto, ma non è per tutti.
Secondo: dovrei anche spiegare che ho letto questo libro per ragioni solo ed esclusivamente professionali. Sto cercando di scrivere qualcosa sulla monogamia, che Dio me la mandi buona. So che vi suonerà strano, ma confesso che per i miei problemi coniugali non basterebbero tutti i manuali di self help che si vendono in libreria o su Amazon. E neanche i farmaci e le lacrime, se è per questo. Ma forse ho già detto troppo.
L’intelligenza erotica è un libro molto saggio. Stavo per scrivere “sorprendentemente saggio” perché finora ero rimasto legato al pregiudizio tipico dell’intellettuale snob secondo cui i libri che si propongono di aiutarvi a superare la vostra crisi matrimoniale, professionale o spirituale di solito non ci riescono (come sappiamo bene da queste parti, solo la Grande Letteratura può salvarci l’anima, ed è per questo che tutti i professori di letteratura sono esseri umani moralmente irreprensibili, del tutto privi di vanità, invidia, accidia, lussuria eccetera). Perel è bravissima a spiegare come lo spazio in cui una coppia vive la dimensione erotica, uno spazio così importante all’inizio di un rapporto, possa ridursi sempre di più con la quotidianità e la reciproca conoscenza: nella sua scrittura c’è una consapevolezza pragmatica assolutamente accattivante ed empatica.
Perel ha anche diverse cose interessanti da dire sulla moderna ostinazione a considerare l’intimità solo in termini di intimità verbale: un diktat culturale che confonde e intimidisce gli uomini, la cui incapacità di parlare viene erroneamente interpretata come incapacità di impegnarsi o paura maschilista della fragilità. Perel racconta la storia molto tenera di Eddie e Noriko, che non potevano letteralmente comunicare perché parlavano lingue diverse. Eddie era stato scaricato da un sacco di donne che non sopportavano quello che sembrava un rifiuto di mettere a nudo la sua anima.
“Credo che la nostra fortuna sia stata proprio che non potevamo comunicare a parole”, racconta Eddie a Perel, dopo dodici anni di matrimonio. “Così, Noriko e io abbiamo dovuto cercare altri modi per dimostrarci quanto ci piacevamo. Cucinavamo l’uno per l’altra, ci facevamo il bagno a vicenda… Comunicavamo, ma non a parole”. Più bagni, meno chiacchiere. Se siete donne e infelicemente single, io dico che non può farvi male stampare questo slogan su un cartello e marciare su e giù per la strada.
“Se trasferiti pedissequamente in camera da letto, alcuni dei migliori valori americani – come la democrazia, l’uguaglianza, il compromesso, l’approccio consensuale, la correttezza e la tolleranza reciproca – possono appesantire parecchio il sesso”, scrive Perel in un capitolo intitolato “Democrazia contro erotismo”. Mentre scrivo, Michele Bachmann ha appena annunciato la sua candidatura alla presidenza. Secondo me pochi di voi voteranno repubblicano e non credo che questa lettura vi farà cambiare idea, ma se accadesse l’impensabile e Bachmann vincesse, da quel che dice Perel potremmo avere di che consolarci (non parlo degli inglesi, ovviamente, che vivono in una monarchia classista e di conseguenza fanno sesso sfrenato ogni giorno).
Il mio unico appunto a questo libro appassionante e documentato è che l’autrice usa troppo spesso la parola “vaniglia” in senso dispregiativo, come sinonimo di blando, monotono, sicuro. Credo che l’uso di questo termine derivi dal gelato alla vaniglia, che di solito non sa di niente ed è sicuramente la scelta peggiore se vi trovate in una gelateria che vende tanti gusti diversi. L’aroma del baccello di vaniglia, però, è raffinato, seducente, sottile. Avete mai provato il bagnoschiuma alla vaniglia di Body Shop? Non che io voglia scrivere slogan pubblicitari per una multinazionale – non gratis, almeno – ma secondo me il bagnoschiuma alla vaniglia di Body Shop evoca qualcosa di trasgressivo e di più affine al bondage che alla posizione del missionario. Ragazzi, se lo usate potete dire che il merito è tutto di questo giornale e fargli guadagnare qualche soldo? Grazie.
Qualche acquisto l’ho fatto dopo aver letto i cinque libri consigliati da Woody Allen sul Guardian. Non avevo mai sentito nominare Machado de Assis, e probabilmente non avrei mai letto una biografia di Elia Kazan se non fosse stato per Allen, ma il libro di Schickel mi ha ricordato Ball of fire, l’appassionante biografia di Lucille Ball che ho letto di recente.
Che lo sappiate o no, Kazan è il geniale regista che ha diretto Fronte del porto e Un tram che si chiama desiderio, anche se oggi è ricordato soprattutto per la sua decisione di testimoniare contro degli ex colleghi di fronte alla commissione del senato sulle attività antiamericane, nel 1952. Schickel apre il suo libro con una coraggiosa e provocatoria presa di posizione a favore di Kazan. Non mi era mai capitato, prima d’ora, di imbattermi in qualcuno che lo difendesse, e da questo deducevo che non lo meritasse. Sono pochi i casi in cui possiamo giudicare una scelta come totalmente giusta o sbagliata, e quella di Kazan e di altri mi sembrava non lasciasse spazio a dubbi: era sbagliata. Quindi potevamo allegramente condannarli senza appello.
E va bene. Solo che ho scoperto che le cose non stavano proprio così. Gli argomenti di Schickel sono complessi e dettagliati, e non ho abbastanza spazio qui per rendergli giustizia, anche se complessità e dettagli sono esattamente quello che è mancato dagli anni cinquanta a oggi. Schickel descrive la campagna contro Kazan come “una tattica tipicamente stalinista: fare appello a un facile moralismo e stroncare con slogan semplicistici le obiezioni argomentate di chi dissente”. Ho il sospetto di non essere stato l’unico, all’epoca, a farmi convincere da quel facile moralismo, e una parte di me non ne è affatto contenta.
Schickel picchia duro, e i suoi colpi ai reni – se è lì che risiede il nostro confuso senso morale – ti stendono: se i nomi delle persone denunciate alla commissione fossero appartenuti a membri del Ku Klux Klan o del partito nazista nessuno avrebbe protestato; c’erano molte altre organizzazioni di sinistra più democratiche a cui i progressisti avrebbero potuto iscriversi; le prime manifestazioni contro i gulag risalgono al 1931, e chi negli anni cinquanta ancora difendeva Stalin non aveva scuse; buona parte dell’indignazione nei confronti di Kazan era assolutamente fasulla. Rod Steiger, che aveva interpretato Fronte del porto e che nel 1999 si dichiarò assolutamente contrario all’assegnazione di un Oscar alla carriera a Kazan, disse a un giornalista di Time che Kazan “per noi era un padre, e ci ha tradito”.
Schickel osserva che il tradimento si era consumato più di un anno prima delle riprese di Fronte del porto: in altre parole, la coscienza di Steiger si era risvegliata con un bel po’ di ritardo e quando ormai l’attore aveva già interpretato uno dei ruoli più celebrati della sua carriera. Alla fine fu Dalton Trumbo, uno degli sceneggiatori messi all’indice dalla commissione, a offrire la migliore difesa di Kazan. La persona che era andata a testimoniare, disse, era “un uomo che aveva lasciato il partito comunista per evitare che continuasse a intromettersi nel contenuto ideologico del suo lavoro. Una persona il cui disaccordo con il partito si era trasformato in vera e propria ostilità e che, messa alle strette, non capiva perché avrebbe dovuto sacrificare la sua carriera per difendere i diritti di persone che ormai detestava”. Io vorrei solo credere in qualcosa che sia più semplice di quanto sembri. È chiedere troppo?
Di Kazan c’è molto altro da dire, naturalmente. Ha allestito le prime produzioni teatrali di Morte di un commesso viaggiatore e Un tram che si chiama desiderio, ha lavorato con Arthur Miller in diverse altre occasioni, è stato a letto con Marilyn Monroe e Vivien Leigh, ha diretto La valle dell’Eden e ha scritto un romanzo che ha venduto quattro milioni di copie negli Stati Uniti: ha avuto un novecento piuttosto pieno. Avrei voluto che il libro di Schickel fosse più pettegolo, non solo perché i pettegolezzi sono divertenti, ma perché l’ossessione di Kazan per le donne avrebbe avuto bisogno, secondo me, di qualche spiegazione e un po’ di contesto in più.
Il rifiuto di Schickel di parlare della vita domestica di Kazan sa più di indulgenza che non di nobiltà d’animo: Kazan se la cava con la scusa che l’uomo è cacciatore (o forse “il grande artista è cacciatore”), ammesso che sia una buona scusa per chiunque. Dall’indice dei nomi: “Kazan, Molly Day Thacher (prima moglie) e relazioni extraconiugali del marito, 94-95, 388-89, 404”. Sono stati sposati trent’anni.
A quanto pare Philip Roth non legge più narrativa. “Ho imparato la lezione”, ha detto all’intervistatore del Financial Times. Abbiamo tutti dei momenti così: io ho giurato, di volta in volta, di non leggere mai più romanzi, libri sullo sport, gialli in cui vengono uccisi bambini e biografie musicali: ma sono decisioni che durano poco. Gli stati d’animo cambiano, i gusti anche e un buon libro trascende sempre il suo genere o l’argomento trattato. Anche se ho paura che il desiderio di leggere storie di bambini e donne smembrate possa avermi abbandonato per sempre. Non sono sicuro che in tutto questo c’entri qualcosa la saggezza, e non vorrei che le parole di Roth avessero un’eco eccessiva solo per la sua età, i suoi successi e la venerazione che ispira.
Non so quanto possa essere saggio rinunciare a Dickens. Personalmente, ogni volta che resto sconvolto dalla mia ignoranza, sento immediatamente il desiderio impellente di leggere saggi. Dopodiché mi rendo conto, di solito piuttosto in fretta, che la lettura di qualsiasi saggio risulterà comunque inadeguata. Se sapessi di dover morire la settimana prossima avrei una gran voglia di saperne di più dell’aldilà: ma in mancanza di saggi realmente autorevoli sul tema (niente consigli, per favore), credo che preferirei leggere un bel romanzo, qualcosa che punti in alto e magari faccia centro, piuttosto che una storia del casato dei Borboni.
Forse è ingiusto chiedere a Eleanor Henderson di fornire una giustificazione filosofica a un’intera forma d’arte, soprattutto perché Ten thousand saints è il suo primo romanzo, ma se la cava piuttosto bene. Seguendo i suoi giovani protagonisti che si muovono sulla scena del punk straight edge newyorchese degli anni ottanta, ho scoperto un sacco di cose che non sapevo (l’astinenza da alcol, tabacco e droghe degli straight edge non ha mai preso veramente piede in Gran Bretagna, dove la sobrietà è considerata una debolezza morale dalla gente di ogni età e tribù). Il pezzo forte, qui, è la scrittura di Henderson, che è calda, partecipe e accurata: non credo di aver mai letto un romanzo urbano così crudamente realistico e insieme poco interessato a trovare una prosa adeguata al soggetto. Il che, tra parentesi, è un bene.
Ten thousand saints è figlio di Lester Bangs e Anne Tyler, e chi non vorrebbe leggere un figlio così? Il bellissimo e profondo Fuori a rubar cavalli di Per Petterson è un ottimo esempio di quello che la saggistica non riuscirà mai a fare. Parla di vecchiaia e infanzia, memoria e famiglia, temi su cui ha parecchie cose da dire. Il fatto che Petterson riesca a dirle con una prosa elaborata che procede per salti temporali e include la presenza – attenzione, dettagli chiave in arrivo, tappatevi gli occhi! – di bambini morti, mi sembra che spieghi perché non dovremmo mai smettere di leggere romanzi, anche quando diventiamo vecchi e saggi.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 917, 30 settembre 2011*
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