Con la convulsa sciatteria che porta i giornali italiani a bruciare ricorrenze pur di anticiparsi tra loro (decine di articoli su Julio Cortázar, Dylan Thomas, Marguerite Duras sbattuti in pagina settimane se non mesi prima dei cento anni dalla nascita di questi autori, con il paradossale effetto di non poterne più parlare nel giorno che dovrebbe celebrarli), la nostra stampa ha ignorato all’unanimità il centenario della morte di Georg Trakl.

Georg Trakl.

Eppure è proprio il poeta austriaco, suicida a soli ventisette anni, ad aver interpretato meglio di altri la tragedia della Grande Guerra – altra ricorrenza trasformata dai mezzi d’informazione nell’esercizio di retorica necessario a non indagare a fondo l’evento che segnò la fine della modernità, primo atto del doppio tracollo europeo dalle cui ceneri non siamo mai del tutto risorti. La fine dell’Europa, di cui la finis Austriae fu la più dolce e struggente delle ouverture, è la premonizione, il dramma e insieme la maledizione di Georg Trakl.

“Io anticipo le catastrofi mondiali”, così scriveva all’amico Johannes Klein poco prima di morire, “non prendo partito, non sono un rivoluzionario. Sono il dipartito, nella mia epoca non ho altra scelta se non il dolore”. Ed è proprio la discesa in un dolore privato – l’amore consumato per la sorella Grete – e la totale impraticità nella vita pubblica (il suo sentirsi uno sradicato, lo straniero in una patria che si dissolve agli occhi del poeta prima di farlo sui campi di battaglia e dalle mappe geografiche e infine dai libri di Storia) a renderlo tra i più enigmatici e insieme tra i migliori interpreti del proprio tempo.

Ludwig Wittgenstein diceva di lui: “Non lo capisco, ma mi piace il suo tono”. Heidegger provò a inglobarlo nella sua filosofia, ma i versi di Trakl erano troppo semplici e troppo pieni di significato per farsi stringere, senza romperle, tra le spire dell’autore di Essere e tempo. Rilke era affascinato da lui, ma confessava di non riuscire a entrarci più in prossimità di quanto si possa fare guardando qualcuno “col viso schiacciato su un vetro”.

Paul Celan (il sopravvissuto all’Olocausto, colui che siede sul capo opposto della tragedia che Trakl comincia a raccontare, suicida a propria volta nel 1970) si recò in pellegrinaggio sulla piccola tomba di Mühlau. E Kraus, il gigante di Vienna, l’editore direttore impaginatore tipografo e strillone di quella rivista sempre più illuminante man mano che le tenebre avanzavano che fu Die Fackel, uno dei pochi intellettuali della sua epoca e addirittura della sua cerchia a vedere nella Grande Guerra non l’occasione per il trionfo del patriottismo ma della catastrofe, Kraus, il quale sostenne Trakl con fermezza, dovette pure ammettere: “Mi è stato sempre incomprensibile come potesse vivere. La sua follia lottava con eventi divini”.

Trakl era un poeta. Tra i cinque o sei grandissimi del novecento. E Trakl, contemporaneamente, era nient’altro che un ragazzo. Nato a Salisburgo nel 1887, padre commerciante di ferramenta piuttosto agiato, madre melomane e collezionista di oggetti d’arte, amante del bello con la mancanza di talento necessario a trasformare la grazia interiore in fredda bizzarria – forse il tipo di velleità che, pur di non toccare il proprio fondo mediocre, rischia di ferire a morte gli spiriti davvero sensibili.

Georg è un bambino piuttosto allegro, poi un ragazzino amante del mondo e della musica, devoto a Margarete (Grete), la sorellina più piccola che diverrà qualche anno dopo la sua amante, precipitando insieme a lui in una delle relazioni più atroci e terribilmente belle mai raccontate (in versi che sembrano parlare di tutt’altro, non allusivi in modo misero, ma paralleli all’oggetto incestuoso). Nel 1897 Georg entra al ginnasio. Verrà bocciato sia alla quarta che alla settima classe, tanto che nel 1905 sarà costretto a lasciare il liceo e inizierà a far pratica come apprendista nella farmacia Zum weißen Engel (All’Angelo Bianco).

Bianco è il colore del cielo di certe giornate invernali a Salisburgo, e bianca è la fiamma accesa e spenta della cocaina e del cloroformio a cui Georg – approfittando della farmacia – comincia a dedicarsi con una certa assiduità. Legge Rimbaud, Baudelaire, Nietzsche, Dostoevskij. Si trasferisce a Vienna. Comincia a scrivere recensioni, drammi teatrali, poesie. I suoi versi incorniciano scene di vita campestre, cieli blu attraversati da corvi neri, tini ricolmi di vino lasciato a dormire nell’ombra. In apparenza, niente di strano a parte una bellezza a tratti eccessiva. Di fatto, tuttavia, attraverso un inspiegabile rovesciamento di quella stessa bellezza, emerge un senso di minaccia che anticipa catastrofi che sulle pagine dei quotidiani austriaci (e italiani, tedeschi, francesi) non sono neanche all’orizzonte.

E poi, la relazione con Grete. Un ritrovare, nel corpo vivo della sorella, non solo un rifugio ma il porto sepolto di un’intera epoca. Recita An die Schwester (Alla sorella):

Dove tu passi si fa autunno e sera,
azzurra fiera che fra gli alberi risuona,
solitario stagno della sera.
Tenue risuona il volo degli uccelli
la tristezza sopra l’arco dei tuoi cigli.
Il lieve tuo sorriso risuona.
Dio ha distorto l’arco delle palpebre.
Stelle cercano di notte, figlia del venerdì santo,
della tua fronte l’arco.

Così spesso intravista nella pace sospesa dei campi, la tragedia alla fine prende forma. Scoppia la Grande Guerra. Georg, adesso ventisettenne, viene richiamato nell’esercito come riservista. È sul campo di battaglia durante la carneficina di Grodek. Forte dei suoi studi, è chiamato ad assistere, solo e senza medicinali, circa novanta moribondi. Sconvolto, tenta il suicidio qualche giorno dopo, ma viene salvato dai commilitoni. Ricoverato nell’ospedale militare psichiatrico di Cracovia, scrive ancora qualche lettera. Poi – la notte del 3 novembre 1914 – muore, probabilmente suicida, a causa di un’overdose di cocaina.

La guerra, chiamata finalmente con il proprio nome, compare nelle ultime poesie. Ma è quando la catastrofe è ancora priva di confini e contenuti ben precisi, che Trakl riesce a metterla davvero a fuoco. Da questo punto di vista, è ardito e illuminante il confronto con Ungaretti. Il poeta italiano e quello austriaco sono, da questo punto di vista, agli antipodi. Ungaretti scrive dopo le terribili battaglie che, una dopo l’altra, distruggeranno una generazione e avveleneranno a morte uno spirito (quello europeo) alimentato da decine di generazioni precedenti. Trakl, per così dire, sogna la fine prima che succeda.

Ungaretti compone Veglia il 23 dicembre 1915:

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Trakl pubblica In Autunno nel 1913:

I girasoli sullo steccato splendono,
quieti siedono malati al sole.
Nel campo lavorano cantando le donne,
dal convento le campane alternano rintocchi.
Gli uccelli raccontano una fiaba lontana,
dal convento le campane alternano rintocchi.
Dalla corte risuona mite il violino.
Oggi torchiano il bruno vino.
L’uomo si mostra lieto e mite.
Spalancate sono le stanze dei morti
e ben dipinte dalla luce del sole

Non c’è solo un senso di minaccia e di premonizione, nello specchio infranto dal colpo dello sguardo (il nostro) che moltiplica un paesaggio altrimenti idilliaco. Il momento più alto della poesia di Trakl è farci sentire (ma in un modo così sottile che la sfioriamo e dubitiamo subito dopo di averla avuta tra le dita) la sensazione che quel paesaggio il poeta lo stia guardando dal futuro, quando non solo il paesaggio sarà un altro o distrutto, ma il poeta stesso sarà morto. Visti da dopo la morte, quei girasoli, e quel convento, sono quasi identici a come li vedremmo da questa parte, ma è quella infinitesimale differenza a sbalzarci in modo terrificante in un tempo dove ogni cosa sarà perduta e noi, impossibilmente, potremo ricordare ciò che vediamo ora.

Il 27 ottobre 1914, sei giorni prima di morire, ricoverato nell’ospedale militare di Cracovia, Georg Trakl scrive allo scrittore e editore Ludwig von Ficker: “Le invio accluse le copie delle due poesie che Le avevo promesso. Dalla Sua visita in ospedale, il coraggio della disperazione mi si è raddoppiato. Mi sento già quasi oltre il mondo. Per chiudere voglio anche aggiungere che in caso di mia dipartita è mio desiderio e volontà che tutto quanto possiedo in denaro o beni vada alla mia cara sorella Gretl. L’abbraccia, caro amico affettuosissimo, il suo Georg Trakl”. Grete, a sua volta, si toglierà la vita con un colpo di pistola il 21 settembre del 1917.

Nicola Lagioia è uno scrittore. Ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 con il romanzo Riportando tutto a casa. Il suo ultimo romanzo è La ferocia (Einaudi 2014). I versi qui riprodotti di Trakl sono tratti dal volume Poesie (Garzanti) nella traduzione di Valeria Degli Alberti e Eduard Innerkofler. Le lettere qui riprodotte di Trakl si trovano invece in Gli ammutoliti-Lettere 1900-1914 (Quodlibet).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it