“Com’è nato il personaggio di Lila?”, chiesi a Marilynne Robinson.
Era un radioso pomeriggio di maggio a Torino, e noi ci trovavamo all’ultimo piano di un albergo ultramoderno nei pressi del Lingotto. Le enormi vetrate di cristallo guardavano verso Rivoli e Avigliana. Pur essendo le vette tutt’altro che imbiancate, la luce, come capita a volte in quella città, dava idea di poter venire amplificata a dismisura dalla cintura delle Alpi. Non eravamo soli. Intorno a noi c’erano due cameramen, un regista, un produttore esecutivo, qualche giornalista, molti curiosi e ancora più cavi elettrici sparsi lungo il pavimento.
“Guardi”, rispose Marilynne Robinson, “quel personaggio compariva già in Gilead, il mio secondo romanzo, anche se non aveva lo spazio che gli ho dato nel libro che porta il suo nome. Forse per i lettori di Gilead non era evidente, ma io sentivo la sua presenza in modo intenso già da allora. Lila. Era qualcosa di profondo in me”.
“Che libri leggeva da bambina?”.
“Oh, la mia scuola era davvero piccola. Una scuola molto per bene, ma io mi annoiavo. Poi un bel giorno scoprii la biblioteca. Lì cambiò tutto. Mi ritrovai per le mani Moby Dick, e i libri di Charles Dickens…”.
Il produttore esecutivo fece uno strano segno con la mano. Cercai di non distrarmi.
“Tra un suo libro pubblicato e l’altro passano sempre molti anni”, dissi, “addirittura più di venti tra il suo primo romanzo, Housekeeping, e quello successivo. Tenendo conto del livello della sua scrittura, mi sembra tempo ottimamente investito. Mi chiedevo tuttavia se in questi lunghi intervalli tra una pubblicazione e l’altra lei scrive di continuo o si prende delle lunghe pause”.
“Ventiquattro anni tra un romanzo e l’altro è veramente troppo. Eppure quel periodo fu molto importante per me…”, disse Marilynne Robinson sporgendosi in avanti.
Mi guardava con i suoi occhi azzurri, la lunga chioma di capelli bianchi, la camiciona jeans che le dava l’aspetto di una nativa americana, e in quel momento, nonostante il rispetto che provavo per lei, anzi proprio a causa del rispetto e dell’enorme ammirazione a cui ero stato indotto dalla lettura dei suoi libri, in anticipo sulla certificazione di un mio personale fallimento, qualche secondo prima cioè che un altro componente della troupe mostrasse l’inconfondibile gesto della mano aperta e chiusa a pugno – “Stringi. Spicciati. Concludi!”– riuscii a pensare in modo freddo: “Merda, è tutto così terribilmente sbagliato”.
Caso quasi unico, nei libri di Marilynne Robinson si intravede il futuro. Per futuro non intendo certa vecchia paccottiglia orwelliana o peggio ancora apocalittica
Questo articolo vuole essere un omaggio a una delle più grandi scrittrici americane viventi nonché un sentito invito a leggerla, specie in Italia, dov’è poco conosciuta. Come forse si è intuito, è anche un gesto riparatorio. Ma a questo ci arriveremo. Dirò prima che Marilynne Robinson è qualcosa di più di una scrittrice dal talento invidiabile.
Leggendo e rileggendo i suoi libri ho più volte pensato – spaventandomi un po’, come accade quando proviamo a prendere sul serio una nostra sensazione in odore di iperbole – che la loro autrice fosse una delle cinque o sei persone al mondo attualmente più capaci di spostare l’arte del romanzo oltre i confini entro cui si riteneva fosse costretto, con lo stupefacente risultato di offrire al tempo in cui viviamo una possibilità.
Caso quasi unico, nei libri di Marilynne Robinson si intravede il futuro. Per futuro non intendo certa vecchia paccottiglia orwelliana o peggio ancora apocalittica. Dopo Stanley Kubrick e Cormac McCarthy, immaginare la fine del mondo può risultare un esercizio di pigrizia. I libri di Robinson, con sottigliezza rara, suggeriscono al contrario un possibile futuro che valga la pena di essere vissuto, e lo fanno mostrando e nascondendo la dimensione dello spirito a cui potremmo accedere se avessimo la meglio su una serie di ostacoli interiori che rappresentano la nostra vera dannazione. Tutto questo, nel 2016, grazie a un continuo, irrituale, paziente, faticoso, mai banale e mai risolto dialogo con il Nuovo testamento e con la storia degli Stati Uniti.
In un’epoca in cui la religione presta il fianco di continuo alla violenza e al populismo, alcuni dei romanzi più complessi, sfuggenti e profondi tra quelli scritti nell’ultimo decennio attingono misteriosamente la loro forza dal cuore del cristianesimo. Li ha appunto scritti Marilynne Robinson. I loro titoli sono Gilead, Home, Lila, e sono stati pubblicati in un arco temporale che va dal 2004 al 2014. A dire la verità il primo romanzo di questa autrice si intitola Housekeeping e fu pubblicato nel lontano 1980. È però la cosiddetta trilogia di Gilead ad aver imposto la sua voce.
Marilynne Robinson è nata nel 1943 a Sandpoint, nell’Idaho. Vive da anni nello Iowa, dove insegna scrittura creativa. Ha vinto il Pulitzer nel 2005 grazie a Gilead ma è dal settembre del 2015 che la sua fama ha superato la cerchia neanche così ristretta di chi ama la letteratura.
Il merito è di Barack Obama. È successo che il presidente degli Stati Uniti ha intervistato la sua scrittrice preferita per la New York Review of Books. Obama aveva letto Gilead durante i tempi morti di una lontana campagna elettorale, spostandosi da una città all’altra. Era rimasto stupefatto dalla bellezza del romanzo, tanto da voler incontrare la sua autrice. Cosa che è riuscito a fare anni dopo.
Umanesimo religioso
Nel corso di quell’intervista ormai celebre, Robinson e Obama com’è prevedibile non parlano solo di letteratura ma anche di politica, e anche di religione. Il momento forse più interessante è quando Marilynne Robinson dice che la democrazia si fonda idealmente sulla fiducia che gli esseri umani ripongono in altri esseri umani, nell’aspettativa che le persone agiscano per il bene e non per il male. E poiché, per come la vede lei, gli esseri umani sono immagini di Dio, meritando ciascuno il rispetto che si deve a chi porta in sé l’amore del Creatore, la democrazia diventa la logica, inevitabile conseguenza di questo tipo di umanesimo religioso portato al suo più alto livello.
Se ci si pensa, siamo al ribaltamento di ogni idea di stato confessionale utilizzando proprio la leva di un pensiero religioso.
Per tradizione, la letteratura statunitense ha intrattenuto con la Bibbia rapporti più saldi rispetto a quella europea. Quando Friedrich Nietzsche scrive Così parlò Zarathustra, Hermann Melville è ancora attivo. E quando William Faulkner è alle prese con Assalonne, Assalonne!, in Francia viene dato alle stampe per la prima volta Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade. Nella seconda metà del novecento, negli Stati Uniti ci sono state scrittrici cristiane come Flannery O’Connor, e scrittori legati alla tradizione religiosa ebraica come Isaac Singer, ma, come ovunque in occidente, si è diffusa naturalmente una letteratura laica che guardava alla religione come un contesto dal quale emanciparsi per diventare individui compiuti, per non soccombere sotto lo schiacciasassi della stupidità in nome di Dio.
Quello di John Ames è un atto di amore, e un sofferto sermone su come cercare di stare al mondo in maniera dignitosa
In questo, gli ebrei di seconda e terza generazione sono stati dei maestri, e Philip Roth probabilmente più di tutti. Come biasimare del resto l’alter ego di Roth, Nathan Zuckerman, costretto a barcamenarsi tra il bigottismo, il conformismo nonché la crudeltà gratuita che le comunità religiose sanno evocare tanto bene intorno a sé?
Può allora sorprendere che nel ventunesimo secolo, abituati a immaginare la religione negli Stati Uniti come il gasolio che alimenta l’isteria di certi falchi repubblicani, una scrittrice maneggi la materia in modo tanto raffinato e insieme tanto sorprendentemente nuovo, portando il suo discorso su territori diversi.
I tre romanzi più noti di Marilynne Robinson – tradotti superbamente in italiano da Eva Kampmann – sono ambientati nell’immaginaria cittadina di Gilead, nell’Iowa. Qui, le vicende della famiglia del reverendo congregazionalista John Ames si intrecciano con quelle della famiglia di Robert Boughton, reverendo presbiteriano. Il primo capitolo della trilogia è Gilead. Si tratta della lunga lettera che John Ames, al quale resta poco da vivere, scrive all’unico figlio, avuto in tarda età da Lila, la sua seconda moglie. Il figlio di John e Lila è ancora un bambino, non avrà più di cinque o sei anni.
Dunque, è come se leggessimo con gli occhi del futuro e al tempo stesso ascoltassimo, al presente, la voce di un defunto: la lettera di un padre al proprio figlio adulto che il destinatario sarà in grado di comprendere, e potrà dissigillare, quando il mittente non ci sarà più.
Un conflitto insanabile
Quello di John Ames è un atto di amore, e una confessione privata, e un sofferto sermone su come cercare di stare al mondo in maniera dignitosa. Il reverendo racconta al figlio i motivi che portarono suo padre e suo nonno a scontrarsi duramente anni prima. Anche il padre e il nonno di John Ames erano reverendi, entrambi schierati con gli abolizionisti durante la guerra di secessione. A differenza del primo, il vecchio reverendo era però convinto che, a mali estremi, ricorrere alla violenza fosse giusto, e debellare lo schiavismo spargendo sangue tra i confederati un male eventualmente necessario. Su questo, tra padre e figlio – racconta John al figlio adulto del futuro – si creò un conflitto insanabile.
Se chi sta dalla parte della ragione usa i mezzi sbagliati diventa colpevole quanto il suo avversario? Quante volte il male lastrica il percorso delle nostre buone intenzioni senza che ce ne rendiamo conto?
Non è l’unico dubbio sollevato in Gilead. Le angosce di John Ames riguardano ancora più il tempo davanti a sé, specie quello in cui lui non ci sarà più. Sarà così difficile, per suo figlio, crescere senza un padre a fargli da guida? Questo bambino, tra l’altro, osservato da un genitore ormai debole e anziano, non corre qualche rischio già da ora? Il pericolo, a ben guardare, viene forse dalla famiglia dell’amico fraterno di John, Robert Boughton.
Il figlio di Robert, Jack, è una specie di sbandato che, dopo anni di assenza, torna a casa dei genitori. Jack comincia a frequentare anche casa di John, gioca con il suo bambino, si intrattiene un po’ troppo a chiacchierare con Lila, tanto che il reverendo Ames arriva a temere che, approfittando della sua malattia, o addirittura della sua morte, Jack arrivi a prendere il suo posto.
Il secondo capitolo della trilogia, Home, si incentra proprio sulla figura di Jack, chiaramente modellata sulla parabola del figliol prodigo per come può attecchire in un contesto moderno.
Non c’è pagina nei romanzi di Marilynne Robinson che non ponga i suoi protagonisti davanti a una scelta
Infine Lila, il romanzo di cui parlavo direttamente con Marilynne Robinson a Torino. È la storia della seconda moglie di John Ames, la quale molto prima di arrivare a Gilead è stata una bambina abbandonata, una vagabonda, una prostituta che impara a non fidarsi di nessuno, e poi, toccata dai sentimenti mossi in lei da John Ames, è costretta a disimparare e reimparare daccapo. La lotta di Lila consiste in realtà nel comprendere qualcosa che già le apparteneva, provvista finalmente della stele di Rosetta necessaria a decifrare la formula che si portava dentro senza saperlo, ovvero la capacità di aprirsi al prossimo, di provare empatia e ricevere comprensione, di fare l’esperienza miracolosa di uno scambio autentico con l’altro, fino a sentire se stessa risuonare nel mondo con una complessità e una bellezza sconosciute.
Poiché ci troviamo davanti a romanzi, e a romanzi molto belli, scritti benissimo, strutturati narrativamente in modo magistrale, non c’è nulla per così dire di troppo “astratto” nel racconto di questa ricerca spirituale. È tutto anzi molto concreto, ed è per questo che risulta convincente. Crediamo alla lenta evoluzione interiore di Lila così come avevamo creduto all’improvvisa rivelazione del principe Andrej in Guerra e pace quando, ferito in battaglia, misura se stesso attraverso l’altezza del cielo sopra Austerlitz.
Benché parlino di tempi e di luoghi e di personaggi che possono sembrarci lontani (quale legame può esserci tra il reverndo John Ames, seduto nella veranda della sua vecchia casa di Gilead, e uno di noi mentre scarica la posta sul computer in una città italiana del ventunesimo secolo?) i romanzi di Marilynne Robinson ci toccano da vicino, parlano ai nostri anni molto meglio di tanti libri in apparenza più legati alla contemporaneità.
Non c’è pagina nei romanzi di Marilynne Robinson che non ponga i suoi protagonisti davanti a una scelta. In certi casi si tratta di una scelta pratica: fare o non fare una determinata cosa, con tutte le conseguenze che ne derivano anche sul piano etico. Ma in altri casi, e sono la maggior parte, proprio perché si possa arrivare a fare quella scelta in libertà, Marilynne Robinson riesce meravigliosamente a illustrare i crocicchi mentali davanti a cui ci troviamo di continuo anche nel corso di una sola giornata, i percorsi interiori che riusciamo a padroneggiare quando non ne siamo padroneggiati, soccombendo per esempio alla forza della rabbia, della frustrazione, dell’invidia, della gelosia.
Al tempo stesso Marilynne Robinson ci illustra – con l’accuratezza che potrebbe avere una sonda medica esplorando l’evoluzione visibile, per così dire esteriore, della nostra fisiologia – il superamento di un ostacolo interiore oltre il quale si spalancano territori emotivi inediti, calpestando i quali riconosciamo in noi una forza, un’energia, una sapienza e insieme una leggerezza del mondo insospettati. Il che, ovviamente, non ci impedirà di sbagliare di nuovo alla prossima occasione.
Letteratura e coscienza
Siamo nel campo dell’etica? Siamo nel regno della metafisica? O magari si tratta anche di psicologia: Marilynne Robinson fa incontrare idealmente nell’Iowa sant’Agostino e Sigmund Freud? E se fosse invece, il suo, un tentativo di spingere l’indagine letteraria dentro il funzionamento della mente, o nei meccanismi di formazione della coscienza? Marilynne Robinson si muove sul territorio delle neuroscienze usando paradossalmente come sponda le scritture? O magari accade proprio il contrario…
Ero impegnato a farmi queste domande quando si è presentata l’occasione di incontrare chi le aveva suscitate. Era successo che Marilynne Robinson sarebbe venuta in Italia, cosa che in effetti ha fatto nella primavera del 2016. Il merito è stato principalmente di Michela Murgia. E anche un po’ del premio Mondello. Succede che ogni anno il Mondello sceglie uno scrittore italiano, che a sua volta premia uno scrittore straniero che considera un maestro. La cerimonia si svolge al Salone del libro di Torino, che in questa iniziativa è parte attiva. Nel 2015 Antonio Scurati aveva per esempio scelto Emmanuel Carrère. Nel 2014 Niccolò Ammaniti aveva scelto Joe R. Lansdale. Nel 2016 Michela Murgia, con mia grande gioia, aveva deciso che il premio Mondello per il miglior autore straniero sarebbe andato a Marilynne Robinson.
Cosa succede quando scopriamo qualcosa di meraviglioso che quasi tutti ignorano?
Come ho già detto, i fan italiani di Marilynne Robinson sono davvero pochi. Pochissimi, se paragonati all’importanza dell’autrice – inserita non a caso da Time nella lista delle cento persone più influenti al mondo nel 2016. È un po’ come aver letto Sotto il vulcano o Lo straniero prima di quasi tutte le persone che fanno parte della tua comunità di riferimento.
Una fortuna, certo, ma anche un po’ una dannazione se si ha il carattere del sottoscritto. Perché: cosa succede quando scopriamo qualcosa di meraviglioso che quasi tutti ignorano? Due le possibilità: tenere il segreto per sé, o divulgarlo il più possibile. Mi fregio di militare da anni nel secondo partito. Caso volle, in quel periodo, che la televisione pubblica mi chiedesse di condurre una trasmissione dal Salone del libro. Io, che avevo rifiutato la proposta quando mi era stata fatta – non volevo aggiungere un altro impegno ai tanti che avevo – cambiai subito idea non appena seppi che a Torino, proprio al Salone, ci sarebbe stata Marilynne Robinson. Quale mezzo migliore della tv, mi dissi, per far conoscere questa grande scrittrice a un pubblico più vasto?
E qui caddi in uno dei tranelli mentali che i libri di Robinson illustrano così bene: desiderare qualcosa che ci sembra giusto si realizzi, ma perseguire il desiderio usando una logica che non gli appartiene.
Con un certo impegno, e grazie all’intercessione del direttore del Salone del libro Ernesto Ferrero, del premio Mondello, nonché delle case editrici Einaudi e Bompiani, riuscimmo a ottenere non solo la disponiblità di Marilynne Robinson per un’intervista, ma anche quella della premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. Ora, a mio modesto parere, sia Robinson sia Ebadi sono due giganti della contemporaneità.
Ecco l’errore
Quindi, sempre secondo la mia sindacabilissima opinione, e visto che sia Ebadi sia Robinson avevano dimostrato una disponibilità che spesso non appartiene a persone di minor valore, ritenevo che le interviste televisive dovessero essere molto lunghe. Come minimo, venti minuti ognuna. In un mondo sensato, anche un’ora per ciascuna. Insomma, mi dicevo, la televisione ha a disposizione a costo zero una premio Nobel per la pace nonché una delle più grandi scrittrici viventi, e non le intervista per un’ora? Magari in montaggio l’intervista sarebbe stata ridotta, ma gli archivi, mi dicevo ancora, si sarebbero arricchiti di lunghe sequenze da mandare in onda alla prima occasione. Certo, sapevo anche che la divulgazione culturale può ricevere cittadinanza dalla nostra televisione mentre l’approfondimento culturale molto meno. Così, proprio per superare il pregiudizio, mi misi a difendere la causa di Robinson e di Ebadi travestendo le mie ragioni con quelle che supponevo appartenessero ai miei interlocutori.
Ecco l’errore. Perché ritenevo che il pubblico italiano, un pubblico più vasto dei semplici addetti ai lavori, dovesse conoscere Marilynne Robinson? Per la grandezza dei suoi libri. E perché Ebadi? Per il coraggio delle sue idee. Invece condussi la mia piccola battaglia usando le uniche ragioni a cui ritenevo fossero sensibili gli uomini della televisione. Fondamentalmente, dissi loro che Ebadi era importante perché aveva vinto il Nobel e la Robinson perché aveva vinto il Pulitzer ed era stata intervistata da Obama. “Capite?”, ripetevo in modo ormai quasi molesto, “è Obama ad averla intervistata, non il contrario. Non possiamo darle meno di mezz’ora!”. Solo al ricordo, arrossisco di vergogna.
Alla fine del confronto con gli uomini della televisione, mi fu detto che l’intervista a Marilynne Robinson sarebbe durata al massimo cinque minuti, mentre per quella a Ebadi avrei avuto anche sette minuti.
In questo modo è stata possibile la scena con cui ho aperto l’articolo che state leggendo. Io che intervisto Marilynne Robinson per una manciata di minuti, lei che risponde con grande gentilezza, e nulla o quasi dell’importanza dei suoi libri arriva al telespettatore, con mio grande dispiacere, con mia grande frustrazione.
Ironia della sorte, quella trasmissione televisiva quando andò in onda piacque a tutti. Piacque agli uomini della televisione. Piacque al pubblico. Piacque agli addetti ai lavori. Io invece mi sentivo affranto.
La consapevolezza delle cose
Sarebbe cambiato qualcosa se avessi difeso la lunghezza di quella intervista adducendo le ragioni per me giuste? Probabilmente no, sul piano pratico. Le regole televisive non le faccio certo io, e non sarebbe credo giusto le facessi. E tuttavia, il punto non è questo, come potrebbe dire il personaggio di un romanzo di Marilynne Robinson in uno dei suoi momenti di maggiore consapevolezza delle cose. Il punto non è riuscire a vedere o meno soddisfatte le proprie richieste. Non è vincere o perdere. O meglio: in questi casi si vince e si perde altrove, dentro una stanza alla cui soglia non mi ero neanche dato la pena di bussare.
Giunta l’estate, mano a mano che il giorno del mio incontro con Marilynne Robinson si allontanava senza che questo sbiadisse in me la spiacevole sensazione di aver fatto perdere un’occasione a chi non la conosceva, quegli stessi libri me li sono riletti ancora una volta. Il mio secondo, o forse terzo, incontro con Marilynne Robinson. Ho ripreso in mano Lila, sfogliato Home, riletto da capo a fondo Gilead. Li ho trovati, se possibile, anche più belli di prima. Una toccante esplorazione dei sentimenti umani.
Una densa, incompleta, partecipata riflessione sul senso della nostra presenza sulla terra. Una fiducia nelle capacità dell’uomo, nonostante i suoi errori, nonostante i disastri di cui disseminiamo la nostra storia. Se il mondo è pieno di odio ma da qualche parte c’è la testimonianza del suo opposto, non è in quel puntolino luminoso che dovremmo concentrarci, non dovremmo provare a infilarci nell’eccezione, e usare le nostre energie per allargare questa singolarità, sottraendo spazio al niente che la circonda?
Uno schema interpretativo
Sono di nuovo entrato nella casa del reverendo John Ames e in quella del reverendo Robert Boughton, ho seguito ancora una volta il percorso di redenzione di Lila e i fallimenti di Jack, cercando di capire come la tradizione letteraria nordamericana e in genere occidentale – con l’esattezza delle sue descrizioni, la cura per i dettagli, lo sviluppo di trame e personaggi credibili oggi – possa convivere con i continui richiami alle scritture, con dei riferimenti religiosi sin troppo diretti, ben oltre l’allegoria o la parodia che, a partire dalla modernità, sono i canali di comunicazione privilegiata tra narrativa sacra e profana.
Poi a un certo punto, mentre leggevo, mi è sembrato di avere una piccola rivelazione, che è anche il modo con cui vorrei concludere questo articolo. È possibile che Marilynne Robinson non sarebbe troppo contenta di ciò che mi è sembrato di vedere nei suoi libri, a proposito del cristianesimo. O forse al contrario non le dispiacerebbe affatto. Chi può dirlo? Se la incontrerò ancora, glielo chiederò. Ciò che voglio dire è che la religione cristiana, così presente in libri come Gilead, Home, Lila, non mi sembra chieda al lettore una professione di fede, ma non credo neanche sia il semplice fondale davanti a cui si sviluppano le vicende narrate.
La religione cristiana, nei romanzi di Marilynne Robinson, è piuttosto una griglia, uno schema interpretativo e insieme uno strumentario a cui tutti – atei e credenti, cristiani ed ebrei, musulmani, buddisti – possono attingere per provare a evolversi come singoli, e come parte di una comunità. Se una delle nostre missioni di specie è il graduale allontanamento dalla violenza originaria, nei romanzi di Robinson le scritture sono usate come un complesso strumento di emancipazione proprio rispetto a questo tema.
Non è ovviamente l’unico modo di leggere il Vangelo. Donald Trump è presbiteriano, esattamente come presbiteriana è stata a lungo Marilynne Robinson prima di aderire alla variante congregazionalista. Mi sembra chiaro che i due interpretano il Vangelo in modo opposto. Da una parte la chiusura, dall’altra l’apertura. Il fascino per la violenza, e la liberazione dalla violenza. Il ripiombare nei gorghi del passato, e la possibilità di un futuro diverso, che non sia la ciclica ripetizione di ciò che è già stato.
Una storia piena di discontinuità
Leggendo i libri di Marilynne Robinson, non mi sono convinto che il Dio dei cristiani esista. E non mi sono convinto neanche che l’aldilà dei cristiani esista. Ma ho ricevuto conferma che il Vangelo può essere un prodigioso strumento di trascendenza. Non l’unico strumento di trascendenza a nostra disposizione, ma uno dei più affascinanti, e resistenti. E che cos’è la trascendenza, nella lunga storia dell’uomo, se non anche il progressivo liberarsi dal potere della violenza, dai ricatti dell’istinto di prevaricazione, dall’egoismo e dalla paura? Non siamo in fondo già trascesi rispetto agli uomini che praticavano la legge del taglione?
La naturale repulsione che proviamo verso la schiavitù non testimonia forse che un superamento ci sia stato rispetto ai tempi in cui il problema non era neanche posto? Non siamo istintivamente portati a considerare il mahatma Gandhi un individuo più evoluto di Adolf Hitler?
Certo, la nostra storia è piena di discontinuità, e il ventunesimo secolo sta insegnando qualcosa sul fascino dei ritorni al passato. Ma cosa accadrà se – lottando innanzitutto contro una parte di noi stessi – sceglieremo la strada di una progressiva trascendenza, o se volete di una progressiva evoluzione? Che cosa allora troveremmo al di là del nostro attuale stato di coscienza del mondo? Troveremmo il Dio dei cristiani? La Natura di Spinoza? I pluriversi di Giordano Bruno? Il Nirvana? Il Nulla? Qualcosa che ora non riusciamo a immaginare?
Sicuramente tra le nostre possibilità c’è quella di aprirci la strada verso dimensioni esistenziali, emotive e spirituali inedite. Provocare simili cambiamenti appartiene alla storia dell’uomo. E se il Vangelo fosse uno schema in un certo senso parziale? Me lo sono domandato leggendo i libri di Marilynne Robinson. Se fosse uno strumento di trascendenza in grado di portarti in una dimensione più evoluta che non è tuttavia precisamente quella a cui dice di condurti, una dimensione in cui – al posto del Dio biblico, pensabile all’inizio del percorso – ci sia qualcosa di non pensabile prima di averlo raggiunto? Dio è un geroglifico che muta a seconda della sapienza dentro gli occhi di chi guarda?
Mi rendo conto che queste ultime sono considerazioni che un tempo sarebbero state forse in odore di eresia.
Ma è per dire quali pensieri può smuovere oggi un libro di narrativa. È per cercare di spiegare quanto la letteratura del ventunesimo secolo non abbia perso niente della potenza, dello scandalo, della profondità e della novità che tradizionalmente associamo all’esperienza di leggere romanzi. Ed è anche per provare a raccontarvi il mondo di Marilynne Robinson un po’ meglio di quanto non si riesca a fare con un’intervista di pochi minuti. E per farvi venire la voglia di leggerla.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it