“Il sud Europa deve essere più tedesco?”. La domanda, posta dallo Spiegel nel 2012, ritorna oggi, dopo che la chiusura delle trattative greche ha restituito un mix di riforme e austerità ispirato al cosiddetto consenso Berlino-Washington e un piano di privatizzazioni ritagliato sull’esperienza della riunificazione tedesca. Guidata, alla fine degli anni ottanta, dall’attuale ministro delle finanze di Berlino e dominus delle trattative europee, Wolfgang Schäuble.

Per molti, compreso il premier italiano Matteo Renzi, la risposta è sì. Considerata alla fine degli anni novanta “la malata d’Europa”, da quel momento la Germania non conosce crisi. La sua economia è cresciuta del 10 per cento tra il 2009 e il 2014. Il tasso di disoccupazione è al 4,7 per cento, quello giovanile al 7,1.

L’export supera l’import di circa 300 miliardi di euro all’anno, per un surplus commerciale pari al record dell’8,4 per cento del prodotto interno lordo (pil). Il governo ha ottenuto il pareggio assoluto di bilancio e prevede di abbattere il rapporto debito/pil al 60 per cento entro il 2020.

Un sistema dell’istruzione non competitivo

Eppure, da quindici anni l’economia tedesca ha smesso di investire a tassi accettabili, ipotecando negativamente il suo futuro. All’appello mancano 103 miliardi all’anno, necessari per mantenere stabile lo stock di capitale dell’industria.

Le imprese hanno 500 miliardi chiusi in cassaforte, così l’investimento privato è scesodal 21 per cento del 2000 al 17 per cento del 2013. I governi hanno la loro parte di responsabilità. Nonostante bassi tassi d’interesse sui titoli di stato, che rendono conveniente prendere a prestito, gli investimenti pubblici sono al 2 per cento del pil e servirebbero dieci miliardi in più all’anno per mantenere agibili le infrastrutture in futuro.

La Germania tra cinque anni avrà bisogno di 1,7 milioni di immigrati

Anche il sistema dell’istruzione è colpito dal “divario di investimento”. Le università tedesche non riescono a competere con i migliori atenei al livello globale e rimangono indietro nelle classifiche internazionali. Solo un terzo delle persone tra i 30 e i 34 anni è laureato, una quota inferiore alla media Ocse.

Tutto ciò contribuisce al ritardo del paese nella corsa all’innovazione. Decima nell’Unione europea per livello di digitalizzazione, nel settore la Germania non sforna concorrenti al livello globale dalla fondazione della Sap) nel 1972. Ora che l’information technology aumenta il suo peso nell’industria tradizionale, compresa quella automobilistica, il timore è che questo possa diventare il tallone d’Achille della competitività tedesca.

Ma, quando il governo ha tentato di incoraggiare le iscrizioni all’università, ha generato le resistenze delle imprese manifatturiere, preoccupate dal declino delle immatricolazioni al sistema apprendistato, che oggi rappresenta il principale canale di passaggio scuola-lavoro.

Un paese sempre più anziano

La coperta, d’altro canto, è corta: la fertilità tedesca è la più bassa del mondo, con otto neonati ogni mille abitanti. Nel 2035, le persone di più di 65 anni saranno 24 milioni, con un aumento del 50 per cento. Entro il 2100, ci saranno 25 milioni di tedeschi in meno e la Germania avràcessato di essere la superpotenza demografica d’Europa.

A Lohberg, periferia nord di Dinslaken, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 28 gennaio 2015. (Dominik Asbach, Laif/Contrasto)

La soluzione, rappresentata fino a questo momento da un vero e proprio boom dell’immigrazione (400mila migranti netti nel solo 2012), è osteggiata in maniera crescente dalla politica, pronta ad alzare barriere anche per chi arriva dagli altri paesi dell’Unione. Eppure, la Germania nel 2020 avrà bisogno di 1,7 milioni di immigrati e, senza un mercato del lavoro in salute, non potrà mantenere a lungo la sua posizione di preminenza economica.

Aiutata dall’euro, Berlino ha potuto esportare verso il resto del mondo quando l’Europa è entrata in crisi

Le riforme Hartz, concluse dai socialdemocratici nel 2005, sono spesso indicate come la ragione del crollo della disoccupazione. In realtà, l’aumento della competitività tedesca è stato generato da una drastica “moderazione salariale”, interrotta solo negli ultimi anni: prima della grande recessione, gli stipendi sono cresciuti meno della produttività, abbassando i costi di produzione e i prezzi dei prodotti.

Questo è stato permesso dalla struttura di contrattazione tra imprese e sindacati più che dalle riforme, che pure hanno contribuito all’abbattimento del potere contrattuale dei lavoratori attraverso una diminuzione dei sussidi di disoccupazione e la creazione di una sacca da cinque milioni di “impiegati marginali” grazie ai cosiddetti minilavori.

L’effetto aggregato è stato l’abbattimento della “quota lavoro” sul reddito nazionale e un aumento della disuguaglianza nella ricchezza fino ai livelli più alti dell’area euro. Oggi, i poveri sono 12,5 milioni – la quota più elevata dalla riunificazione del paese.

Il sistema bancario peggiore del mondo

Aiutata dall’euro, che rende i suoi prodotti più convenienti, la Germania ha potuto esportare verso il resto del mondo (Asia in testa) quando l’Europa è entrata in crisi. Prima di quel momento, il boom dell’export verso i partner del vecchio continente era stato spinto da un intreccio di relazioni finanziarie che faceva perno sul sistema bancario tedesco.

“Uno dei peggiori al mondo”,secondo l’analista Paul Gambles. La scarsa capitalizzazione delle banche, compresa la Deutsche Bank, lascia il sistema vulnerabile a potenziali crolli.

Circa la metà delle piccole banche europee, lasciate fuori dalla supervisione della Bce, si trova proprioin Germania. Si tratta di banche regionali e municipali con un rapporto in molti casi di dipendenza dalla politica. Queste hanno in pancia debiti garantiti dallo stato pari al 145 per cento del pil tedesco, debiti che in futuro potrebbero finire per pesare sul bilancio pubblico.

Questa implicita garanzia di salvataggio ha spinto le banche a comportamenti azzardati per tutti gli anni 2000. Prestando denaro ai paesi periferici a rischio in cerca di facili ritorni, le banche hanno generato un flusso di capitali in grado di alimentare i deficit commerciali dei paesi del Mediterraneo, che riutilizzavano il denaro per comprare beni e servizi tedeschi, stimolando il boom della Germania mentre accumulavano squilibri insostenibili.

L’attacco dell’uomo Bce

Nel 2010, quando il castello di carte è crollato, l’Europa si è affrettata a salvare il sistema bancario trasferendo le potenziali perdite dal bilancio delle banche a quello dell’eurozona nel suo complesso attraverso il sistema Target2.

Beeck, nel distretto di Duisburg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 25 novembre 2014. (Oliver Tjaden, Laif/Contrasto)

La stoccata più dura è arrivata nelle scorse settimane da Yves Mersch, uomo della Bce, durante l’assemblea annuale della DZ Bank, quarto gruppo bancario del paese.

Un’economia che non ha abbastanza lavoratori qualificati e che non ristruttura ponti e strade consuma la sua ricchezza e non è credibile quando afferma di voler crescere in maniera dinamica e sostenibile. Una società in cui gli ottantenni aumenteranno del 50 per cento nei prossimi quindici anni rischia di perdere la sua volontà di riformare e di integrare. Questo crea una tendenza a proteggere i diritti acquisiti e a sposare il conservatorismo di una società chiusa. Per questo i governi non dovrebbero solo richiedere riforme altrove ma innanzitutto attuarle nel proprio paese

A Berlino, che secondo le classifiche Ocse negli anni di Angela Merkel è caduta al 28º posto su 34 per propensione alle riforme, saranno fischiate molte orecchie.

I problemi sottolineati da Mersch non sono solamente tedeschi. Ma la soluzione del “consenso Berlino-Washington”, la medicina amara fatta trangugiare a Tsipras, equivale alla richiesta di barattare stabilità domestica con competitività estera.

Il modello è quello di un’eurozona con crescenti disuguaglianze, ampie sacche di disoccupazione soprattutto al sud e salari moderati con il solo scopo di aumentare l’export. Un’idea neomercantilista dell’economia che rischia di porre una pressione recessiva su tutta l’economia globale, dando nello stesso tempo fiato a elementi di destabilizzazione interna al continente.

Quello tedesco non è un modello da seguire.

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