“Delle politiche per il Mezzogiorno non c’è più traccia”, lamentava da Napoli il presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano, nel giugno di quest’anno. Le sue parole sono arrivate dopo un crescendo di notizie negative sull’andamento dell’economia del sud del paese negli anni della crisi.
A dicembre del 2014, il periodico rapporto Check up Mezzogiorno di Confindustria aveva fotografato così la situazione: più di 40mila imprese chiuse; investimenti in calo di più di 29 miliardi di euro; quasi 700mila posti di lavoro perduti; 125mila lavoratori in cassa integrazione; quasi una persona su due ha rinunciato a cercare un lavoro regolare; prodotto interno lordo in calo di oltre 51 miliardi di euro.
Nel giugno di quest’anno, il rapporto annuale L’economia delle regioni italiane della Banca d’Italia ha aggiunto nuovi elementi di preoccupazione rispetto al quadro dipinto nei mesi scorsi. A partire da questi dati è possibile ricostruire una serie storica sul pil territoriale italiano, con l’obiettivo di restringere un gap statistico (le serie storiche dell’Istat sono ferme al 2011) che informa parzialmente il dibattito pubblico italiano.
Secondo i dati di Bankitalia, dopo due anni consecutivi di andamento negativo, il calo del pil si è arrestato nelle regioni del nord (+0,1 per cento nel nordovest, invariato nel nordest) e ha registrato un lievissimo arretramento al centro, pari al -0,1 per cento.
Al sud, invece, la ricchezza prodotta non ha interrotto il suo crollo, che dura ormai dal 2008. Così, alla fine del 2014 il pil del Mezzogiorno è calato dell’1,9 per cento, trascinando le statistiche dell’intero paese verso il segno meno (l’Italia nel 2014 ha perso lo 0,4 per cento di pil). Tra il 2007 e il 2014, la flessione del pil è stata vicina al 15 per cento: fatto 100 il livello di otto anni fa, oggi l’economia delle regioni più a sud d’Italia è ferma a 85,2 – mentre tutte le altre sono sopra i 90 punti.
La disoccupazione è al 20,7 per cento, contro il 9,4 per cento del centronord, e quella giovanile al 55,9 per cento. Si tratta di un milione e mezzo di persone che cercano un lavoro, e il 60 per cento di loro lo cerca da più di un anno senza risultato.
“La storia economica dell’Italia nel novecento è caratterizzata da una netta regolarità, che emerge con chiarezza dagli anni settanta: quando l’economia del paese va male, il divario nord-sud aumenta, per ridursi nei momenti di crescita”, osserva Emanuele Felice, docente all’Università autonoma di Barcellona e autore del libro Ascesa e declino. Storia economica d’Italia. “Da questo punto di vista, la crisi ha aggravato il divario, e la ripresa, molto timida, non sta migliorando la situazione”.
Secondo l’Istat, l’economia italiana crescerà nel 2015 dello 0,7 per cento e continuerà a riprendersi negli anni successivi: +1,2 per cento nel 2016, +1,3 per cento nel 2017. Nel primo trimestre del 2015, l’occupazione nel Mezzogiorno ha mostrato un timido segnale positivo: +0,8 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014.
“Ma non si può nemmeno cominciare a parlare di ‘ripresa’ del sud se non si interviene su una lunga serie di problemi strutturali, che nel Mezzogiorno si presentano in maniera più accentuata che nelle altre zone dell’Italia; e l’Italia stessa al momento non ha una strategia coerente per uscire da una crisi che non è congiunturale ma di sistema”, chiosa Felice.
Anche nel 2015 il pil del Mezzogiorno continuerà a contrarsi. Secondo le stime della società di consulenza Prometeia, “la crescita delle esportazioni è meno della metà della media nazionale e non riesce a imprimere uno slancio sufficiente a far ripartire l’attività produttiva”.
Mentre la domanda interna resta debole, gli investimenti si riducono e i consumi sono frenati da redditi in caduta e dall’alta disoccupazione. Tutto questo quando il Fondo monetario internazionale gela il governo: “Serviranno vent’anni”, sostiene l’istituto con sede a Washington, “perché l’Italia ritorni ai livelli di occupazione precedenti alla crisi”.
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