L’equilibrio delle forze globali è un argomento molto interessante per chi si occupa di politica. Uno degli interrogativi attuali è se la Cina – magari insieme all’India – scalzerà gli Stati Uniti nel ruolo di potenza globale dominante. Ma la cornice in cui si svolgono queste discussioni è fuorviante. Il sistema globale non dipende solo da un’interazione tra stati che difendono un “interesse nazionale” astratto: all’interno dei singoli paesi c’è un equilibrio di poteri.

Adam Smith sosteneva che gli “artefici principali” della politica inglese del suo tempo erano “i mercanti e i proprietari delle manifatture”, che proteggevano i loro interessi “in modo particolare” anche se le conseguenze sugli altri, compreso il popolo inglese, erano “penose”. La teoria di Adam Smith è ancora valida, ma oggi gli “artefici principali” sono le multinazionali e soprattutto le istituzioni finanziarie.

Negli Stati Uniti abbiamo appena avuto un esempio drammatico del loro potere. Nelle ultime elezioni presidenziali sono state le più grandi finanziatrici della campagna elettorale di Barack Obama. Naturalmente si aspettavano una ricompensa.

E l’hanno avuta, sotto forma di sovvenzioni pubbliche per uscire dalla crisi e di altri provvedimenti. Prendiamo per esempio la Goldman Sachs, un pezzo da novanta del sistema economico e politico statunitense.

Quest’impresa ha fatto soldi a palate vendendo titoli legati ai mutui immobiliari e strumenti finanziari più complessi. Conoscendo la fragilità dei titoli che aveva venduto in giro, la Goldman Sachs ha stipulato con il gigante delle assicurazioni Aig, l’American International Group, un accordo per tutelarsi da un eventuale crollo in borsa.

Quando poi il sistema finanziario è crollato, l’Aig è stata travolta dalla crisi. E gli artefici della politica della Goldman Sachs non solo hanno negoziato il salvataggio dell’azienda, ma hanno anche fatto in modo che fossero i contribuenti statunitensi a salvare l’Aig dalla bancarotta. Oggi la Goldman Sachs sta facendo profitti mai visti ed è più grande e potente che mai.

L’opinione pubblica è infuriata. I cittadini vedono che le banche – le prime responsabili della crisi – la fanno franca, mentre la disoccupazione è vicina al 10 per cento. La rabbia popolare ha spinto l’amministrazione a compiere un cambiamento di rotta retorico.

La Casa Bianca ha criticato l’avidità dei banchieri e ha abbozzato dei progetti sgraditi all’industria finanziaria, come la cosiddetta regola Volcker (l’introduzione di limiti alle dimensioni e all’assunzione di rischi delle banche). A quel punto, visto che Obama avrebbe dovuto essere “il loro uomo a Washington”, gli “artefici principali” hanno fatto capire al presidente che o si rimetteva in riga o loro avrebbero finanziato l’opposizione.

E così, in pochi giorni, Obama ha dichiarato alla stampa che i banchieri sono “persone perbene”: “Come la maggioranza degli americani, io non sono invidioso né del successo né della ricchezza di nessuno.

Sono cose che fanno parte del libero mercato”, ha detto sostenendo l’interpretazione che di “libero mercato” dà la dottrina del capitalismo di stato. Questo voltafaccia dimostra che l’idea di Adam Smith è ancora attuale.

Ma gli artefici della politica stanno lavorando anche a un vero e proprio cambiamento nei rapporti di forza: dalla forza lavoro globale al capitale transnazionale. Già nel 2007, il presidente della Alfred P. Sloan Foundation, Ralph Gomory, dichiarava al congresso degli Stati Uniti: “In questa nuova era di globalizzazione, gli interessi delle imprese e quelli dei paesi divergono.

A differenza di quanto avveniva in passato, ciò che è bene per le multinazionali americane non è più necessariamente un bene per il popolo americano”. Prendiamo l’Ibm. Alla fine del 2008 oltre il 70 per cento dei 400mila dipendenti dell’Ibm lavorava all’estero, scrive Business Week. Nel 2009 l’Ibm ha ridotto di un altro 8 per cento il numero dei suoi dipendenti negli Stati Uniti.

Per i lavoratori questa situazione sarà anche “penosa”, come diceva Adam Smith, ma agli artefici principali della politica va benone. Secondo recenti studi, entro vent’anni un quarto dei posti di lavoro statunitensi sarà “esportabile”, e per quelli che resteranno la sicurezza e uno stipendio dignitoso diminuiranno a causa dell’aumento della concorrenza tra i lavoratori.

La ricchezza negli Stati Uniti si concentra sempre di più in poche mani e, a livello mondiale, in molti paesi è diminuita la quota del reddito nazionale che finisce ai lavoratori. Così assistiamo a un altro significativo spostamento dell’equilibrio mondiale: dai cittadini agli artefici principali del sistema globale.

Un processo favorito dall’erosione della democrazia nei paesi occidentali più potenti. A questo punto, il futuro dipende da quanto la maggioranza delle persone è disposta a sopportare e dalla possibilità di trovare una risposta costruttiva ai problemi del sistema di dominio e di controllo che chiamiamo capitalismo di stato.

Se questo non avverrà, le conseguenze potrebbero essere drammatiche, come la storia ci insegna.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 837, 12 marzo 2010*

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