Ancora una volta il pomo della discordia è Gerusalemme Est, occupata da Israele durante la guerra del 1967. Nel quartiere di Ramat Shlomo sarà costruito un complesso di 1.600 appartamenti.

Il ministro degli interni israeliano ha annunciato il progetto il 9 marzo, durante la visita in Israele del vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden. Poco prima Barack Obama aveva invitato Israele a frenare l’espansione degli insediamenti nei Territori occupati. Secondo la stampa israeliana, Biden ha avuto una conversazione molto tesa con Netanyahu e gli ha manifestato la preoccupazione dei militari statunitensi per la mancata soluzione del conflitto israelo-palestinese: “La condotta di Israele mette a rischio la sicurezza delle truppe americane in Iraq, Afghanistan e Pakistan. È un pericolo per gli Stati Uniti e per la pace nella regione”.

Una settimana dopo Netanyahu e Obama hanno avuto alla Casa Bianca un colloquio difficile. Sugli insediamenti (e ancor più su Gerusalemme) Netanyahu mantiene una linea dura e non sembra voler far nulla per favorire la nascita di uno stato palestinese.

Quest’intransigenza danneggia anche la credibilità degli Stati Uniti. Vent’anni fa un dissenso simile sul problema delle colonie spinse l’allora presidente George H. Bush a imporre delle sanzioni limitate a Israele per reagire al comportamento arrogante e offensivo del primo ministro Yitzhak Shamir, che fu subito sostituito.

Resta da vedere se l’amministrazione Obama è disposta almeno a prendere provvedimenti blandi come quelli di Bush padre. Nel maggio 2009, a Washington, Obama aveva incontrato Netanyahu e il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen. I colloqui, e il discorso di Obama al Cairo del giugno successivo, erano stati interpretati come una svolta nella politica mediorientale degli Stati Uniti.

Ma un esame più approfondito fa nascere dei dubbi. I rapporti tra Israele e gli Stati Uniti, e quelli con Abu Mazen, si basano su due espressioni chiave: “stato palestinese” e “crescita naturale degli insediamenti”. Esaminiamole.

Effettivamente Obama ha pronunciato le parole “stato palestinese”, come l’ex presidente George W. Bush. Ma nel programma del partito di governo israeliano del 1999 (mai modificato) si legge che il Likud di Netanyahu “rifiuta la nascita di uno stato arabo palestinese a ovest del fiume Giordano”.

E nel 1996 il governo di Netanyahu fu il primo a usare l’espressione “stato palestinese” dichiarando che i palestinesi, volendo, potevano pure chiamare “stato” le briciole di territorio che gli restavano oppure potevano chiamarle “pollo fritto”.

Nel maggio 2009 la posizione degli Stati Uniti è stata espressa da una frase, poi molto citata, del segretario di stato Hillary Clinton: Washington è ufficialmente contraria a nuovi insediamenti che vadano oltre la “crescita naturale”. Il Likud e quasi tutti i partiti israeliani insistono su questa “crescita naturale”, accusando gli Stati Uniti di volersi rimangiare l’autorizzazione a espandersi concessa da Bush.

Un anno fa al Cairo Obama ha mantenuto il suo stile tipo “lavagna vuota”: poca sostanza ma presentata in modo da permettere a chiunque ascolti di scriverci quello che vuole. Il presidente americano ha evocato uno stato palestinese senza spiegare cosa intendeva dire.

E ha dichiarato: “Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità della prosecuzione degli insediamenti israeliani”. Le parole chiave sono “legittimità” e “prosecuzione”. Per omissione, Obama ha lasciato intendere che gli insediamenti israeliani già esistenti sono “implicitamente” legittimi, e quindi l’espressione “stato palestinese”, riferita ai frammenti di territorio sparsi qua e là, equivale a “pollo fritto”.

Nel novembre del 2009 Netanyahu ha annunciato una sospensione di dieci mesi delle nuove costruzioni, escludendo però la Grande Gerusalemme, dove l’esproprio di terre nelle zone arabe e la costruzione di case per i coloni ebrei, come a Rabat Shlomo, proseguono. Hillary Clinton ha elogiato le concessioni “senza precedenti” fatte da Netanyahu, rendendosi ridicola e suscitando rabbia in tutto il mondo.

L’amministrazione Obama è favorevole a una “riformulazione” del conflitto mediorientale, nei termini espressi a marzo 2010 dal presidente della commissione esteri del senato, John Kerry. Israele dev’essere integrato tra gli stati arabi “moderati” alleati degli Stati Uniti, per tenere testa all’Iran e garantire il predominio americano in quella regione ricca di fonti di energia. Un eventuale accordo tra Israele e Palestina deve collocarsi in questo quadro.

Intanto i legami tra Israele e gli Stati Uniti si sono rafforzati. L’alleanza tra i loro servizi segreti risale ormai a mezzo secolo fa. I rapporti tra le industrie militari dei due paesi restano molto stretti. Per questo agli israeliani è concesso sfidare gli ordini di Washington, ma non devono tirare troppo la corda.

L’arroganza mostrata nel caso di Ramat Shlomo non è stata gradita. Finora gli Stati Uniti hanno formalmente condannato i crimini di Israele, ma sono stati complici. Resta da vedere per quanto tempo ancora saranno disposti a farlo.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 841, 9 aprile 2010*

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