Con l’avvicinarsi del Natale, mi torna in mente un leggendario signore con la barba bianca, famoso per il suo interesse per il comportamento dei bambini e per le sue renne. Sto parlando di Sigmund Freud (le renne erano un diversivo).
Normalmente possiamo convincerci che le teorie di Freud siano superate da qualche decina di anni, ma davanti ai drammi che scoppiano intorno alla cena natalizia, o a tutte le altre discussioni che nascono quando una famiglia si riunisce, torna il sospetto che i rapporti familiari siano spesso condizionati da vecchie ferite, risentimenti inconsci e altre forze simili che sfuggono alla mente razionale.
Cinquant’anni fa un freudiano canadese non proprio ortodosso chiamato Eric Berne pubblicò la sua versione di questa ipotesi. A che gioco giochiamo (Games people play), diventò il manuale di auto aiuto per eccellenza degli anni sessanta, e non è difficile capire perché: Berne scoperchia i segreti delle liti familiari, dei matrimoni falliti e di tutto il resto. E sostiene che questi non sono i nostri unici problemi. Solo soltanto variazioni sul tema di un piccolo numero di “giochetti” prevedibili che tutti involontariamente giochiamo. Questa settimana, perché non cerchiamo di prenderne coscienza?
Secondo il metodo di Berne, l’analisi transazionale, ricopriamo sempre uno di questi tre ruoli: genitore, bambino o adulto. Ovviamente, il tipo di interazione ideale tra persone mature sarebbe quella tra adulto e adulto. Ma non è quasi mai così. Di solito, nei confronti dei suoi dipendenti un capufficio si comporta come un genitore, e loro reagiscono come bambini, verificando continuamente quanto possono tirare la corda o facendo i capricci. Oppure, un coniuge chiede implicitamente che l’altro gli faccia da padre o da madre, per poi infuriarsi quando questo diventa evidente.
I giochi di Berne hanno nomi come “Guarda che mi hai fatto fare” e “Non è la volontà che mi manca” e il loro scopo, spiega, non sta nel loro contenuto esplicito, ma in una serie di vantaggi impliciti. Nel gioco “Perché tu non… Sì ma…”, A deve risolvere un problema, ma trova un motivo per respingere tutti i suggerimenti di B. Quando finalmente B rinuncia a dargli dei consigli, A canta vittoria, anche se il problema non è stato risolto.
Nel gioco “Ti ho beccato, figlio di puttana”, A si attacca a una qualche piccola ingiustizia e non cede fino a quando B non confessa, e tutto questo perché A vuole affermare il suo predominio genitoriale. “Fin da quando era bambino”, scrive Berne a proposito di un paziente simile ossessionato da un piccolo errore nella fattura di un idraulico, “era sempre andato in cerca di ingiustizie simili, le aveva scoperte con piacere e sfruttate con gusto”. Vi ricorda qualcuno? Scommetto di sì.
Da questo tipo di analisi emergono due verità sorprendenti. La prima è che certi litigi e certi atteggiamenti passivi aggressivi, anche se sembrano veri scontri, in realtà sono frutto di un’inconscia complicità: entrambi i partecipanti amano litigare perché questo permette loro di rafforzare l’immagine di vittima che hanno di se stessi.
La seconda è che questo tipo di giochi non è necessariamente negativo. Vivere sempre nell’intimità pura e non filtrata del rapporto tra adulti, sembra voler dire, sarebbe insopportabile. “L’eterno problema degli esseri umani è come organizzare le proprie ore di veglia”, scrive Berne, e i giochi sono un modo tollerabile di passare il tempo. Questo non significa che durante il pranzo di Natale io vi consigli di litigare con un fratello o con una sorella tanto per passare il tempo. Ma se lo faceste vi capirei. Probabilmente lo farò anch’io.
Traduzione di Bruna Tortorella
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