Il fallimento degli uffici open space
Quando il mese scorso la Panasonic ha annunciato la nascita di Wear space, il prototipo di un prodotto che in realtà può essere solo definito un paraocchi per esseri umani, la reazione più comune è stata quella di un divertito orrore.
Questo casco aperto, che comprende una cuffia per non sentire i rumori, è un modo elegante e moderno per evitare di essere distratti dai colleghi negli uffici open space, risultato che in passato ho dovuto ottenere con pile di libri, piante dal fogliame folto e un carattere insopportabile. “Avete mai la sensazione che in ufficio vi stiate divertendo troppo?”, chiede sarcasticamente il sito web di tecnologia The Verge. “O che il vostro capo non vi apprezzi abbastanza?”.
Ma l’elemento distopico qui non sono i paraocchi, sono gli uffici open space. Come sicuramente ormai saprete, demotivano, distraggono e sono collegati a livelli più alti di stress e pressione sanguigna. Secondo un recente studio, non hanno neanche il lato positivo di favorire piacevoli conversazioni, anzi, inducono a parlare di meno. Naturalmente, fanno risparmiare soldi, che poi è il motivo principale per cui esistono, ma se lo fanno rendendo i dipendenti molto meno efficienti, viene da chiedersi se sia un sistema che alla lunga può funzionare.
Addio divisione dei ruoli
C’è anche un altro fenomeno, messo in evidenza dal blog Study Hacks, che riecheggia il fallimento dell’open space: quello per cui molte persone passano una bella fetta della loro settimana lavorativa a fare cose che sono al di sotto del loro livello di competenza.
Negli anni ottanta, studiando l’impatto dei sistemi computerizzati nelle grandi aziende americane, l’economista Peter Sassone scoprì che gli alti dirigenti dedicavano “una percentuale sorprendentemente alta del loro tempo” a svolgere compiti che prima spettavano al personale amministrativo.
Dato che i computer permettono ai manager di scrivere da soli i loro promemoria, di preparare i grafici per le presentazioni, di programmare i loro appuntamenti, e così via, gli amministrativi sono stati gradualmente eliminati per risparmiare soldi.
Non è detto che “stare tutti insieme” sia la soluzione migliore
Ma in effetti non c’è stato nessun risparmio: secondo Sassone, un ufficio potrebbe risparmiare migliaia di dollari per dipendente all’anno tornando a una chiara separazione tra i ruoli.
I motivi non sono affatto misteriosi. Che ci piaccia o no, le persone che progettano la strategia di investimenti di una banca o i nuovi prodotti di una ditta di software sono pagati molto di più di quelli che inseriscono i dati o prenotano le sale per le riunioni. Perciò se chiedete al vostro esperto di investimenti di inserire i dati, state pagando una somma enorme per un lavoro di tipo amministrativo, così enorme, dice Sassone, che spendereste meno se i ruoli fossero separati.
Senza contare che il personale di supporto è specializzato nel suo lavoro, diversamente dal manager, che perde mezz’ora a fissare perplesso lo schermo per capire come si tolgono i pallini dall’elenco puntato automatico di Word.
Certo, l’idea di un ufficio in cui dirigenti e amministrativi sono nettamente distinti tra loro sembra poco democratica, antiquata, ma in realtà, un ritorno a questa separazione non deve necessariamente significare che i meno pagati possono essere sfruttati o che a occupare i posti migliori siano sempre gli uomini o che è difficile passare da un livello all’altro. Anche gli uffici open space sembrano più moderni, ma questa idea di “stare tutti insieme” è solo superficialmente attraente, e non è detto che sia la soluzione migliore. Come molti sanno, negli uffici di Facebook Mark Zuckerberg lavora in uno spazio aperto come tutti gli altri, e vedete che impatto sta avendo questo per l’umanità.
Consigli di lettura
Il libro di Nikil Saval, Cubed (del 2014) è un’affascinante storia culturale dell’ufficio, e dimostra che innovazioni apparentemente democratiche come gli spazi aperti in realtà hanno contribuito a consolidare il controllo delle aziende sulla vita dei loro dipendenti.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.