La Siria è probabilmente il paese in cui la primavera araba avrà le maggiori conseguenze geostrategiche. Al contrario di quello che è successo in Tunisia, Egitto, Yemen o Bahrein, la scomparsa del clan Assad cambierebbe completamente la situazione in tutto il Medio Oriente. Ma lo stallo in cui ci troviamo oggi – caratterizzato da una dura repressione e da rivolte continue – contribuisce a radicalizzare la posizione delle potenze regionali e rischia di generare nuovi conflitti.

Gli occidentali sono fuori gioco perché gli effetti delle sanzioni possono influire ben poco sull’evoluzione della crisi: il regime è con le spalle al muro e si batterà comunque fino alla fine. Inoltre l’intervento in corso in Libia rende impossibile un impegno militare occidentale: la Nato non ha più mezzi disponibili, ci vorrebbe un forte impegno statunitense, ma è molto improbabile.

Però la grande novità – e il grande pericolo – della crisi siriana è il confronto tra due nuovi protagonisti, che finora avevano mantenuto un atteggiamento di pacifica convivenza pur appartenendo a due schieramenti opposti: l’Iran e la Turchia. I due paesi sono oggi direttamente coinvolti nella crisi siriana.

La Turchia in nome della sua nuova politica di grande potenza regionale (e non in quanto membro della Nato). L’Iran invece non aveva scelta: la caduta del regime siriano sarebbe una catastrofe per Teheran. È infatti il suo unico alleato arabo, il solo legame via terra con gli Hezbollah libanesi, che rappresentano la testa di ponte iraniana nella regione. Senza Damasco, l’intera politica regionale dell’Iran crollerebbe. Una politica che consiste nel posizionarsi come l’ultimo leader del “fronte del rifiuto” verso Israele e come difensore di un nazionalismo arabo tradito dagli altri paesi. Di fatto il regime che sostituirà il clan Assad sarà comunque sunnita e anti-iraniano, indipendentemente dal suo colore politico. Teheran ha quindi mandato in Siria denaro, consiglieri e armi, e non esiterà a fare di più, anche a costo di mettere in gravi difficoltà il suo alleato Hezbollah.

Più insolita è invece la posizione turca, passata da una compiacenza verso il regime a un’ostilità al limite dell’interventismo. Ankara sta ammassando truppe alla frontiera, cerca di organizzare l’opposizione interna e chiede apertamente la fine del regime.

È un atteggiamento completamente nuovo per lo stato turco moderno. Finora la Turchia ha mostrato i muscoli in Medio Oriente (al contrario di quanto ha fatto con Cipro o nel mar Egeo) solo contro il Pkk curdo. In passato la Turchia non ha mai chiesto cambiamenti di regime né ha mai inviato le sue truppe nella regione (se non contro le basi dei guerriglieri curdi) né ha mai accolto sul suo territorio un movimento d’opposizione a un regime mediorientale. Questo è il paradosso turco: fino a che Ankara era interessata a entrare nell’Unione europea era molto prudente in Medio Oriente, ma oggi conduce una politica molto attiva ed è necessariamente obbligata – anche se cerca di presentarsi come grande mediatore – a diventare parte attiva nei conflitti regionali.

Ci troviamo quindi in una situazione inedita e pericolosa. Uno scontro per interposta persona tra Iran e Turchia, mentre gli “arbitri” abituali, cioè gli Stati Uniti e Israele, mantengono un atteggiamento molto prudente e difficilmente si lanceranno in un’operazione militare. Senza dubbio il regime siriano rappresenta tutto quello che Israele detesta, ma rimane un avversario noto, che si sa come gestire. Oltre Assad invece c’è l’ignoto e, tranne nel caso in cui le truppe iraniane dovessero entrare in territorio siriano, è poco probabile che Israele si muova.

Ma tutta questa mobilitazione intorno a Damasco si svolge in un momento in cui è difficile identificare le forze politiche presenti all’interno del paese. A parte alcuni elementi noti (il regime è innanzitutto l’espressione della minoranza alawita, anche se gode di appoggi tra i sunniti) non si sa molto di più. Quanto sono uniti gli alawiti? Qual è il ruolo dei Fratelli musulmani nell’opposizione? La stessa popolazione non sembra molto informata e tutti temono lo scoppio di una guerra civile tra le varie comunità.

Nel frattempo il regime strumentalizza la paura di un conflitto: ai sunniti ricorda la strage di Hama del 1983, agli alawiti fa capire che il potere regge solo grazie alla forza, e ai cristiani si mostra come il migliore baluardo contro possibili violenze anticristiane come quelle avvenute in Iraq dopo il 2003. Ma resta il problema dei curdi (che sono milioni): le frontiere con la Turchia e l’Iraq sono aperte, le armi passano senza controlli, il Pkk è presente in Siria e i curdi sono molto ostili verso un governo che li ha sempre emarginati e si sono schierati con la maggioranza sunnita contro il regime.

In Siria la situazione è destinata ad aggravarsi, contribuendo a far salire la tensione tra Turchia e Iran. Nessuno conosce con precisione il rapporto di forze all’interno del paese e la nuova tensione tra Ankara e Teheran non ha precedenti. Non ci sono elementi per capire come prevenire un’ulteriore escalation.

*Traduzione di Andrea De Ritis.

Internazionale, numero 912, 26 agosto 2011*

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