Escono al cinema due film, Boyhood di Richard Linklater e Il giovane favoloso di Mario Martone. Si tratta di due film diversissimi, che però affrontano uno stesso problema: la rappresentazione della giovinezza intesa come età solitaria, in cui il distacco dall’infanzia e dalla famiglia d’origine crea una ricerca d’identità e una messa in discussione di ogni certezza, capace di investire il mondo intero.
Ma i due film scelgono due vie diverse, addirittura contrapposte per raccontare la giovinezza: confrontandoli mi accorgo di come Boyhood presenti l’ennesima versione di un’immagine tipica del cinema anglosassone, in fondo fiacca, deludente e appiattita su un presente apparentemente inevitabile, mentre Il giovane favoloso, che si muove tra costumi e parole dell’ottocento, risulta paradossalmente più capace di oltrepassare il proprio tempo. Non si tratta del fatto che il primo racconta una dozzina di anni nella vita di un normale ragazzo americano, mentre il secondo racconta una dozzina di anni della vita di un genio come Leopardi. Si tratta proprio di una scelta, non innocente, e di un modo di vedere la giovinezza.
Raggiungo queste conclusioni andando a vedere i film con mio figlio di 14 anni. Con questa visione comune dei film sull’adolescenza partecipo a uno dei pochi riti (senza passaggio all’età adulta) condivisi dai giovani europei e americani. Col passare degli anni e con la sua crescita, io e lui abbiamo attraversato i più diversi generi e formati, che con sempre maggiore fatica hanno coniugato l’intrattenimento con il racconto del lato problematico della giovinezza.
Il giovane eroe che cresce è stato a lungo la figura bidimensionale di un racconto fantasy, che nel Signore degli anelli resta bambino (il mezzuomo Hobbit), ma che prima o poi – come accade in Harry Potter – scopre l’altro sesso e s’incupisce.
Negli ultimi anni dalla messa tra parentesi del conflitto famigliare, per cui quasi tutti i giovani eroi della letteratura e del fumetto fantasy sono orfani, si è passati all’inclusione di temi come il divorzio dei genitori e le gravidanze indesiderate: per esempio in saghe come Twilight, i cui protagonisti giganteggiano sui poster di innumerevoli camerette di bambini divenuti ragazzi. Ma la caduta del filtro tra il fantastico e il vero, piuttosto che favorire il confronto con la realtà vissuta, rischia di proiettare su quest’ultima un canovaccio stereotipato.
Temi come il turbamento del primo amore, la ricerca di riconoscimento o il dramma della separazione dei genitori risultano privati dei loro tratti più essenziali quando li si cala in storie di maghi, vampiri e gladiatori-bambini
Questo rischio è evidente nei reality show televisivi – dalle mariedeifilippi ai grandifratelli – dove il confine tra personaggio e individuo scompare, proprio nel momento in cui vengono esibite situazioni dall’indubbio carico emotivo. Eccolo il giovane! Come un eroe tragico, si sottopone al giudizio di un coro; ma le pose macchiettistiche e la regia pilotata fanno virare tutto questo verso una ridicola inautenticità, in cui resta solo una pallida traccia delle esperienze che i giovani spettatori stanno fingendo di condividere.
Di recente il cinema per adolescenti ha reagito con una nuova mossa di “aggiornamento”, nel popolarissimo ciclo Hunger Games: raccontare la giovinezza alle prese con un “vero” reality, che mette in gioco la propria vita in una sfida televisiva. Così si continua sempre più a confondere fantasy e realismo sociale e questa confusione produce – in questi che sono i massimi successi planetari della più recente narrativa multimediale per ragazzi – una sorta di effetto anestetico.
Temi come il turbamento del primo amore, la ricerca di riconoscimento o il dramma della separazione dei genitori risultano privati dei loro tratti più essenziali quando li si cala in storie di maghi, vampiri e gladiatori-bambini, dove tutto si risolve con un duello aereo o un’esplosione di luce blu. Allora, come trovare un modo convincente e autentico di raccontare la giovinezza?
In questo contesto si colloca la sfida complessa di cui si fa carico la docufiction, un genere di film dalla lunga tradizione che oggi tende a incorporare tutti i temi del racconto cinematografico, inclusa l’adolescenza. Si tratta di ritrovare qualcosa di autentico, smascherando lo stesso meccanismo orwelliano dei reality show televisivi.
L’idea è questa: mettendo in scena attori non professionisti, che interpretano se stessi seguendo una sceneggiatura che parla delle loro vite, si attingerebbe la realtà meglio che con la recitazione professionale o la registrazione in presa diretta del quotidiano.
Infatti, per aggirare il meccanismo per cui tutto ciò che viene filmato diventa in certa misura finzione, il regista interviene impegnando gli attori, sotto la sua guida, a rivivere situazioni familiari; coinvolti da questo impegno gli attori, con loro gestualità e i loro sguardi, lascerebbero intravedere lo strato più autentico del loro vissuto.
Il caso di Boyhood è esemplare di questo tentativo di “bucare” il filtro filmico. La scelta di lavorare a un film di finzione attraverso la crescita fisica dell’attore, per dodici anni, se non deve restare una trovata soltanto originale mira a questo: cercare negli occhi mutevoli del ragazzo il contenuto più autentico del racconto, che peraltro ripropone situazioni ormai canoniche del cinema americano (il divorzio dei genitori, spesso insicuri e/o alcolizzati; la solidarietà tra coetanei nel naufragio della famiglia; la ricerca di un’identità attraverso l’incoraggiamento di una figura terza, come un professore; le prime storie d’amore, l’abbandono della casa).
La reale crescita fisica svolgerebbe un ruolo analogo a quello che il cinema ha più spesso riservato alla bellezza fisica e alla velocità degli attori (o per converso alla deformità e alla lentezza cognitiva, come in molti film di Werner Herzog): attraverso questi supporti corporei l’immagine filmica vorrebbe restituirci l’insostituibile flagranza della vita.
Finalmente affrancato dal suo passato e libero di autodeterminarsi al college, Mason va a farsi una canna sui monti, si siede con una ragazza che gli piace e balbetta due filosofemi sconnessi da biscottino cinese
Ma in Boyhood questo espediente iperrealistico rischia di occultare un’altra dimensione del linguaggio cinematografico, e della vita. Che cosa dice, infatti, il giovane Mason? In quasi tre ore di film si fatica a trovare una battuta che non presenti un effetto di già sentito, di ovvio, che proprio il naturalismo, per cui vediamo crescere il protagonista, sembra dotare di una patente di autenticità.
Il finale del film è rivelatore: dopo dodici anni (di vita, ma anche di lavorazione, cioè all’incirca il tempo che Proust impiegò a scrivere un’altra storia di crescita e ricerca di sé: la Recherche) qual è il commento di Mason nel suo dialogo finale? “Dobbiamo cogliere l’attimo, davvero… viviamo nell’attimo”. Finalmente affrancato dal suo passato e libero di autodeterminarsi al college, Mason va a farsi una canna sui monti, si siede con una ragazza che gli piace e balbetta due filosofemi sconnessi da biscottino cinese.
In generale la narrazione riduce all’osso la parola articolata al giovane, fa di lui soprattutto un puro osservatore silenzioso, e – non a caso – un talentuoso fotografo. Come in un altro film di grande successo, il premio Oscar American Beauty (1999), la presa di distanza dell’adolescente dal mondo dei genitori si riduce allo sguardo che inquadra gli eventi da cui vuole sfuggire (in quel caso, il ragazzo che registra tutto con la telecamera). Qui si trova un gesto di resa, che mio figlio – sbracato nel sedile vicino al mio – accoglie assistendo al tutto con distrazione, forse con una punta di rassegnazione.
Tutto verosimile, forse, e anche coinvolgente e a tratti commovente, ma troppo familiare. È questo che mi insospettisce: non c’è un gesto di rottura rispetto a quegli stereotipi narrativi, capaci di vampirizzare l’adolescenza, che il cinema-autenticità vorrebbe contrastare con la verità del corpo.
Anzi, tutto va esattamente come potevamo aspettarci, e il giovane Mason non fa che ripetere in silenzio scene già viste mille volte. Il che, dal punto di vista poetico, ha qualcosa di colpevole: rischia di far passare l’interpretazione per riproduzione della realtà.
“Che tristezza”, conclude mio figlio, che non dà l’aria di trovare in Mason un personaggio affascinante, di quelli che vorresti conoscere, ma solo il simulacro grigio e noioso di quella che può essere, e che a volte gli sembra essere l’adolescenza.
Comunque lo convinco a venire a vedere Il giovane favoloso, che lo incuriosisce. Ho letto qualche recensione, e incuriosisce anche me. Valerio Magrelli, commentando il successo del film ai botteghini, ha salutato la scelta brillante di ritrovare in Leopardi quell’eroe romantico – studioso, casto, fisicamente diverso – che è l’archetipo dei supereroi americani.
Altri hanno trovato che il prezzo di questa operazione sia una scelta didascalica, scolastica, arida: Elio Germano che recita L’infinito e tanti altri testi leopardiani con lo sguardo perduto nel vuoto. Eppure io trovo nel film di Martone una reazione artistica al rischio narrativo di cui ho appena parlato. Non si tratta soltanto del benefico effetto di stacco dal presente, attraverso la presentazione minuziosa (e benissimo recitata) di un universo altro di rapporti famigliari e della lotta di un giovane isolato per imporsi in un sistema culturale asfissiante.
Il punto cruciale sta nel modo in cui è riempito il silenzio del giovane, con un gesto semplicissimo. Attingendo alla lingua leopardiana, Martone porta in primo piano una complessità di pensiero e linguaggio capace di annichilire i protagonisti di innumerevoli altri film di cassetta sul genio silenzioso (e dunque, come dicevo, la differenza non sta nel tema del genio).
Nella bellissima scena finale del Giovane favoloso la voce di Leopardi si stacca dal corpo prostrato su una sedia con le labbra chiuse, e recita la Ginestra sulle immagini dei fumi del Vesuvio e di Pompei
Il carteggio tra Leopardi e Pietro Giordani risponde, per esempio, ai dialoghi del giovane e ribelle genio matematico Matt Damon con lo psichiatra Robin Williams in Good Will Hunting (1997) di Gus Van Sant. In questi ultimi troviamo tutto un repertorio bidimensionale di “cose che direbbe un genio”, già riproposto molte volte al cinema.
Lo stesso Robin Williams era già famoso per avere interpretato il ruolo maieutico e paternalistico del professore ne L’attimo fuggente (1989), dove conquistava i giovani allievi del collegio recitando pagine di Whitman e Thoreau e strappando pagine del libro di testo (salvo poi ricordare ai giovani allievi che bisogna anche studiare). E i rimandi potrebbero continuare a lungo, fino a Boyhood, dove è ancora il professore che, sempre paternalisticamente, invita il giovane Mason a sviluppare il suo talento di fotografo ma senza trascurare i compiti, perché “là fuori” la competizione lo schiaccerà.
Tutto questo repertorio, ora, impallidisce rispetto alla lingua di Leopardi, con la sua rielaborazione quasi miracolosa della filosofia illuministica e della cultura classica, che erompe dalla reclusione di una biblioteca privata in pieno stato pontificio, provocando una rottura senza compromessi con tutte le figure che hanno seguito la sua formazione.
A differenza che in Boyhood, l’esperienza che condividiamo non dipende dalle vicende del corpo del protagonista. Così, nella bellissima scena finale, la voce di Leopardi si stacca dal corpo prostrato su una sedia con le labbra chiuse, e recita la Ginestra sulle immagini dei fumi del Vesuvio e di Pompei: e tutto questo, ancora, eclissa i fiacchi epiloghi con cui giovani eroi e supereroi da decenni ci presentano la loro morale rivolgendosi, oltre lo schermo, a noi che restiamo quasi imbarazzati davanti ai titoli di coda.
Per le oltre due ore dei complicati monologhi di Giacomo Taldegardo, mio figlio non smette di fissare lo schermo con gli occhi attenti.
Certo, si dirà, i ragazzi non parlano così. Come forse non parlavano dell’esistenza dell’anima e della realtà dei numeri irrazionali i giovani allievi dei collegi di un secolo fa: ma Musil ce li raccontò così nel Giovane Törless, all’epoca in cui – come ha spiegato Jon Savage ne L’invenzione dei giovani – la gioventù come tema culturale era stata appena inventata.
Quella di puntare sul corpo e sullo sguardo muto, prendendo il silenzio interiore per naturale stato d’innocenza, è una scelta ben precisa della rappresentazione cinematografica più recente. Ma questa scelta ormai usurata, che Boyhood cerca di rinnovare, rischia di sopprimere quella stessa potenza di rinnovamento della giovinezza, che il cinema vuole mettere in luce e rievocare nello spettatore: quella potenza “rivoluzionaria” – il termine è riferito nel film alla poesia di Leopardi, con grande scandalo del padre conservatore – per cui, ridescrivendo il mondo, si capisce che questo non si deve semplicemente accettare così com’è nelle parole degli altri.
Paolo Pecere è ricercatore di storia della filosofia all’università di Cassino e scrive di letteratura e cinema.
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