Durante tutta la pandemia in molti si sono chiesti in quale momento le grandi aziende come Netflix e Amazon avrebbero deciso di approfittare delle difficoltà del settore cinematografico per espandere il loro giro d’affari. Il dibattito si è concentrato sulla possibilità che i colossi della rete rilevassero una catena di sale cinematografiche in difficoltà. E invece la prima acquisizione di peso è stata quella di una grande casa di produzione. Il 26 maggio Amazon ha annunciato che avrebbe rilevato gli Mgm Studios per 8,45 miliardi di dollari. L’acquisto degli storici studios di Hollywood dovrebbe rafforzare la posizione di Prime Video in un momento di espansione delle piattaforme di streaming, ma evidenzia anche una preoccupante tendenza all’accorpamento all’interno dell’industria dell’intrattenimento.

Sfruttare i diritti
Il catalogo della Mgm amplia l’offerta di titoli di Amazon Prime e la quantità di diritti di proprietà intellettuale da sfruttare. L’amministratore delegato uscente Jeff Bezos ha dichiarato che l’acquisto era particolarmente allettante perché “la Mgm ha un ricco catalogo di diritti di proprietà intellettuale su titoli molto amati” che Amazon potrà “reimmaginare e sviluppare per il ventunesimo secolo”.

Queste dichiarazioni dimostrano quanto sia ormai riconosciuta l’importanza dei diritti dei film nel cinema e nell’industria televisiva, ma non dicono niente sui possibili benefici per i lavoratori o per il pubblico. La verità è che lo sviluppo dell’industria culturale ormai riflette soprattutto gli interessi di un oligopolio sempre più potente, e che l’accorpamento mina la qualità dei prodotti.

Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, il consolidamento dei mezzi di comunicazione di massa ha avuto una forte accelerazione. Nel 2009 la Comcast ha rilevato la NbcUniversal, mentre la Disney ha cominciato a trasformarsi nel gigante che è oggi con l’acquisizione della Marvel per 4 miliardi di dollari. Nel 2012 la Disney ha acquistato anche la Lucasfilm, inglobando il secondo pilastro, in termini di diritti, che attualmente le permette di dominare i botteghini: Star wars.

Tuttavia nel corso di questo periodo è avvenuto un altro cambiamento rilevante che ha incentivato la tendenza all’accorpamento: la trasformazione di Netflix da società specializzata nell’affitto di dvd a piattaforma di streaming. In particolare il suo ingresso nel settore della produzione cinematografica e televisiva nel 2013 ha segnato l’ingresso del capitale dell’industria tecnologica nel mondo dei mezzi di comunicazione. Le industrie tecnologiche hanno un accesso più facile al capitale rispetto alle tradizionali aziende di comunicazione e intrattenimento, perché gli investitori sono convinti che sappiano generare maggiori profitti. Questo ha creato una pressione verso l’accorpamento mentre Amazon, la Apple e altri colossi facevano irruzione nel settore.

La competizione portata dalle aziende tecnologiche ha inoltre cominciato a trasformare il modello imprenditoriale del settore. La ricerca di nuovi contenuti da parte dei servizi di streaming, dotati di grandi risorse economiche, ha provocato un aumento dei prezzi, costringendo le aziende tradizionali ad adeguare le proprie offerte. Allo stesso tempo il modello dello streaming ha intaccato le entrate secondarie: anziché far uscire un film nelle sale o trasmettere una serie in tv e poi vendere copie materiali, repliche e diritti all’estero per anni, oggi il contenuto rimane nel catalogo della piattaforma di streaming a tempo indefinito.

Queste tendenze hanno accelerato il ritmo degli accorpamenti. Nel 2016 la AT&T ha rilevato la Time Warner (e quindi la Warner Bros e la Hbo) per 85 miliardi di dollari. Nello stesso anno c’è stata la fusione tra la Cbs e la Viacom. Poi, nel 2018, la Disney ha acquistato la 21st Century Fox per 71 miliardi, eliminando di fatto una sua grande concorrente. Non è difficile comprendere il peso di questa mossa e il suo impatto sull’industria.

Il saggista noto con lo pseudonimo di Film Crit Hulk paragona l’acquisto della Fox da parte della Disney a un’ipotetica acquisizione della Pepsi da parte della Coca-Cola. “La Disney ha comprato il suo rivale, lo ha smantellato per ottenerne pezzi di ricambio, ha conservato un paio di marchi di valore, si è impossessata del catalogo e ha scartato il resto”, scrive il critico. “E così, come se niente fosse, un sesto dell’industria è sparito”. Anche se era già cresciuta, prima dell’acquisizione della Fox la Disney produceva annualmente meno film rispetto agli anni novanta, e non manterrà lo stesso livello di produzione che aveva la Fox. Mentre il numero di progetti si riduce e il potere delle aziende aumenta, a pagare sono i lavoratori del settore.

L’epoca d’oro è già finita
All’inizio delle guerre dello streaming si pensava che le piattaforme, per attirare abbonati, stessero inaugurando una nuova era di creatività cercando di assicurarsi grandi produzioni e grandi talenti, davanti e dietro la macchina da presa. Le stesse aziende investivano su persone che di solito non riuscivano a trovare finanziatori per i loro progetti, consentendo un alto grado di sperimentazione gradito agli spettatori in cerca di qualcosa di diverso. Ma quella fase non è durata a lungo.

Nel 2019 l’analista Eric Schiffer ha detto che “l’epoca d’oro dello streaming” stava finendo, perché le serie di nicchia incontravano sempre maggiori difficoltà a sopravvivere. Le decisioni di Netflix su quali serie rinnovare erano determinate da un opaco algoritmo che alla fine ha portato a una sproporzionata eliminazione delle serie create da donne. Raramente una serie superava la seconda o terza stagione, ovvero la fase in cui di solito si assegnano bonus e aumenti di stipendio. Tutto questo, naturalmente, ha colpito i lavoratori.

Gli attori e i registi più famosi non avranno mai problemi, perché sono molto richiesti in una cultura del consumo governata da celebrità e influencer. Ma le persone che lavorano sul set, tutte quelle riportate in piccolo nei titoli di coda, non avranno la stessa fortuna. Anche se negli Stati Uniti il cinema è uno dei rari settori in cui i sindacati sono ancora influenti, le aziende tecnologiche, dopo aver intaccato il potere dei lavoratori in altri settori, sono partite all’attacco.

I sindacati hanno combattuto per ottenere “tutele e garanzie di base in un’industria caratterizzata dalla provvisorietà”, scrive Film Crit Hulk. Tuttavia, spiega, al pari delle aziende della gig economy che in California hanno usato un referendum per negare i diritti ai propri dipendenti, anche i giganti della tecnologia e le conglomerate, in competizione per il dominio dello streaming, stanno prendendo di mira i diritti dei lavoratori. In particolare le aziende come la Netflix non hanno mai avuto bisogno di lavoratori sindacalizzati, mentre nell’era dello streaming è diventata sostanzialmente impercettibile la fetta delle entrate secondarie (generate quando un contenuto viene ritrasmesso o ne vengono venduti i diritti) riservata ai lavoratori.

A proposito degli artigiani, dei giovani scrittori e delle altre professioni del set che il grande pubblico tende a ignorare, Film Crit Hulk scrive: “I salari per questi posti di lavoro sono diventati estremamente bassi, e ormai le persone sono già contente se hanno un impiego”. Questo impedisce ai lavoratori di raggiungere la stabilità finanziaria e li costringe a passare da un incarico all’altro, sempre che riescano a trovarne.

I lavoratori e i sindacati stanno comunque provando a contrattaccare, e di recente anche i produttori hanno creato un loro sindacato per ottenere condizioni migliori. In ogni caso le conseguenze dei cambiamenti nella produzione di contenuti non riguardano solo i lavoratori del settore, ma influiscono anche sul tipo di film e serie tv a disposizione del pubblico.

Il modello Disney
Nell’industria dell’intrattenimento la varietà e la composizione delle aziende ha sempre avuto un ruolo chiave nel determinare le caratteristiche dei contenuti. Negli anni quaranta il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti impose le leggi antitrust ai grandi studi cinematografici. I Paramount decrees limitarono il controllo degli studios sulla distribuzione portando a un’esplosione di produzioni indipendenti.

Allo stesso modo, negli anni settanta, il governo di Washington introdusse le regole di programmazione fin-syn (in equilibrio cioè tra interessi finanziari e regole antitrust), che imposero una serie di vincoli su ciò che le tre grandi emittenti dell’epoca – Abc, Cbs e Nbc – potevano trasmettere in prima serata. Le nuove norme permisero alle produzioni indipendenti di prosperare mentre il potere dell’oligopolio si riduceva.

Oggi, ancora una volta, viviamo un periodo in cui un oligopolio sta imponendo il suo potere all’industria dei film e della tv. La Disney controlla il suo catalogo e quello della ex 21st Century Fox, limitando la possibilità delle sale di trasmettere i film classici. L’azienda sfrutta il dominio al botteghino, ottenuto grazie ai diritti sui prodotti della Marvel e su quelli della saga di Star wars, per applicare condizioni sempre più punitive agli esercenti cinematografici. Ovviamente questa tendenza ha prodotto anche un cambiamento dei contenuti.

La Disney è stata all’avanguardia nell’introduzione di un modello concentrato sui grandi titoli che usa proprietà intellettuale già esistente per attirare un pubblico più vasto possibile, grazie alla Marvel, a Star wars, alle serie classiche e ad altri diritti acquisiti nel corso degli anni. L’azienda sfrutta questi grandi “marchi” per produrre spin-off e miniserie che un tempo venivano trasmessi in tv (per non parlare dei parchi a tema e delle crociere) ma che oggi sono sempre più spesso disponibili in esclusiva sulla sua piattaforma di streaming.

Netflix, Amazon e altre grandi aziende del settore stanno cercando di emulare questa strategia, come dimostrano le dichiarazioni di Bezos dopo l’acquisizione della proprietà intellettuale della Mgm. Amazon ha investito quasi mezzo miliardo di dollari solo per la prima stagione della sua serie ambientata nel mondo del Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, nel tentativo di produrre il suo Trono di spade, e sta cercando di sfruttare la proprietà intellettuale della Mgm per creare contenuti altrettanto riconoscibili e coinvolgere nuovo pubblico. L’originalità è difficile da vendere, e oggi convincere una grande azienda ad assumersi il rischio di produrre qualcosa di nuovo diventa sempre più complicato.

Commentando l’acquisizione della Mgm, il giornalista e scrittore Nicholas Russell ha spiegato che la guerra dello streaming e la conseguente tendenza all’accorpamento stanno trasformando i film e le serie in “prodotti da commerciare e ammassare per ottenere nuovi abbonamenti”. Questo porta a una “riduzione sia della qualità sia della vitalità della forma di espressione cinematografica”. Mentre aziende come la Disney producono sempre meno film per il cinema, concentrandosi esclusivamente sui block-buster, aumenta il flusso di contenuti per le piattaforme di streaming che servono solo a conservare l’attenzione del pubblico. Ma la qualità dei programmi si è ridotta sensibilmente.

È sempre difficile rendersi conto di ciò che manca, in questo caso specifico di quali film e serie non sono prodotti perché i mercati sono strutturati per incentivare altri tipi di contenuti. I film e le serie indipendenti esistono ancora, ma il panorama dominato dallo sfruttamento della proprietà intellettuale lascia poco spazio alle storie originali, che non derivano da altre storie popolari.

Chi critica i grandi film di supereroi, di fantascienza e di fantasia viene attaccato da chi apprezza la semplificazione di ogni storia a livello infantile e il suo inserimento nella cornice di un universo già conosciuto e familiare.

Resta da capire quali saranno le conseguenze della fusione tra Amazon e la Mgm, ma la vicenda fissa un precedente preoccupante paragonabile all’acquisizione della Fox da parte della Disney. Una delle aziende dominanti del mondo della tecnologia ha inglobato uno storico studio cinematografico hollywoodiano per i propri scopi monopolistici, e il massimo che la maggior parte dei commentatori può fare è chiedersi se arriveranno nuove serie su Prime Video.

È ora che le autorità che regolano la concorrenza concentrino la loro attenzione sull’oligopolio esistente nel mondo dell’intrattenimento e dei mezzi di comunicazione di massa, e agiscano rapidamente per introdurre norme simili ai Paramount decrees o alle regole fin-syn. Il valore della proprietà intellettuale per i giganti della comunicazione di massa mostra anche che bisogna smantellare le protezioni eccessive del copyright per costringere le aziende a investire in qualcosa di nuovo.

Inoltre i film e le serie non dovrebbero essere una prerogativa esclusiva del settore privato. Le difficoltà del mondo del cinema mostrano la necessità di una piattaforma pubblica per investire nelle produzioni che raccontino la vita di persone che non siano per forza ricche, e magari spingano il pubblico ad avere un atteggiamento critico nei confronti del mondo in cui viviamo. Amazon, naturalmente, non ha alcun interesse a farlo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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