“In un periodo come questo serve una caustica ironia, non un ragionamento convincente”, dichiarò l’abolizionista statunitense Frederick Douglass nel 1852. Si riferiva alla futilità di discutere della schiavitù in un paese in cui la costituzione dichiarava la libertà un diritto fondamentale. Invece di cercare di convincere il suo pubblico dell’ovvio, Douglass usò l’umorismo come un’arma contro le incoerenze dello schiavismo negli Stati Uniti dell’ottocento. Ma avrebbe potuto riferirsi anche al Kenya di oggi, dove ogni giorno il governo fa cose assurde. Il 18 aprile la polizia ha chiuso alcune delle principali strade di Nairobi con il pretesto di far rispettare il coprifuoco deciso per il covid-19, provocando lunghi ingorghi. Nel traffico della capitale sono rimaste bloccate ambulanze, genitori con bambini piccoli e lavoratori. I keniani hanno espresso la loro indignazione sui social network e molti di loro hanno usato la satira.

L’umorismo e la satira sono diventati uno dei modi principali per esprimere tutta l’insofferenza verso gli incompetenti e i corrotti al potere. Ma il governo keniano non ha il senso dell’umorismo. Il 6 aprile, mentre online i cittadini si scagliavano contro gli ultimi tentativi di ottenere prestiti dal Fondo monetario internazionale, l’attivista Edwin Mutemi wa Kiama è stato arrestato dalla polizia per aver fatto circolare un manifesto – una parodia degli avvisi pubblicati sui giornali dalle aziende dopo aver licenziato i loro dipendenti – che dichiarava che il presidente Uhuru Kenyatta non era “autorizzato ad agire o a fare transazioni in nome del popolo keniano”. In tribunale i pubblici ministeri hanno dichiarato che “il presidente è un simbolo d’unità e ogni attacco contro di lui è un oltraggio”, e hanno chiesto che Kiama fosse tenuto in carcere per due settimane, mentre loro preparavano la sua incriminazione. Con una decisione ridicola, il magistrato invece ha fissato la cauzione a 4.600 dollari, più di due anni di stipendio medio in Kenya, vietando all’attivista di esprimersi online sul presidente.

Oggi è raro che passi un giorno senza che su internet e sui social network appaiano tweet, vignette che deridono il presidente

Nel suo libro Le idee dei radicals. Potere e democrazia negli Usa lo statunitense Saul Alinsky sostiene che “prendere in giro è l’arma più potente a disposizione di un uomo. È quasi impossibile contrattaccare. Anzi, lo sberleffo fa infuriare gli avversari, che reagiscono procurandoti un vantaggio”. Come da manuale, la risposta del governo keniano ha fatto il gioco di Kiama, rendendo evidente l’intolleranza delle autorità, e generando ancora più memi e prese in giro.

Nel Kenya di oggi i cittadini hanno imparato a usare l’umorismo per fare i conti con le assurdità dello stato. “La risata era un modo per privare missionari e funzionari di attenzione e autorità”, spiega Derek Peterson, professore di storia all’università del Michigan, parlando del Kenya coloniale. Che si trattasse di risate durante le preghiere in chiesa per frustrare i tentativi di convertirli, o di barzellette sulle loro “sofferenze per mano di persone irragionevoli” nei campi di tortura creati dal governo britannico, l’umorismo era una caratteristica costante della resistenza. Dopo l’indipendenza, e soprattutto durante il governo dispotico di Daniel Arap Moi, durato 24 anni, gli autori satirici – drammaturghi, romanzieri e vignettisti – hanno dato la carica al popolo per riconquistare i diritti perduti. Oggi è raro che passi un giorno senza che su internet appaiano tweet, vignette e memi che deridono Uhuru Kenyatta. Il presidente si è guadagnato una serie di nomignoli, legati alla sua presunta passione per l’alcol, al suo modo di vestire o alla sua vita ritirata. E proprio per questo ha deciso di uscire da Twitter, come ha spiegato lui stesso.

In questa guerra tra lo stato e la satira la posta in gioco è alta. Tutte le incarnazioni totalitarie del passato, dagli occupanti britannici a Moi, si basavano sul culto dell’invincibilità. Kenyatta cerca di ricostruire la dittatura di suo padre, mentre una massa determinata di keniani lavora per negargli la statura che lui desidera, rimettendolo al suo posto. La democratizzazione della satira da parte di internet e dei social network rende più complicata la repressione.

Finora il presidente si è rivolto ai tribunali per ridurre al silenzio gli oppositori. Nel dicembre 2014 un importante blogger, Robert Alai, fu accusato di danneggiare la presidenza dopo aver twittato che Kenyatta era un “presidente adolescente”. Un mese dopo uno studente universitario, Alan Wadi, fu condannato a due anni di prigione per aver definito Kenyatta “criminale fumatore di marijuana e inaffidabile uomo dagli occhi rossi”. Più di recente vari blogger e giornalisti sono stati incriminati per aver pubblicato quelle che il governo considera informazioni fuorvianti a proposito del covid-19.

Sono segnali preoccupanti. Gli autori satirici sono come i canarini nella miniera, fanno capire che aria tira per la democrazia e la libertà di espressione. Se il presidente riuscirà a ridurli al silenzio, il sogno democratico del Kenya morirà con loro.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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