Una terribile sconfitta della nazionale inglese in seguito a una campagna di eccessiva esaltazione è ormai un classico nelle competizioni calcistiche internazionali. In questo senso la finale di Euro 2020 è stata una conferma.
“It’s coming home (sta tornando a casa)”, avevano annunciato i mezzi d’informazione e gli opinionisti inglesi. Persino i meteorologi erano stati arruolati a servizio della nazione, facendo paragoni con le condizioni meteorologiche durante la finale dei Mondiali del 1966, l’ultima volta che la nazionale inglese era arrivata alla fine di un grande torneo internazionale.
Ho guardato la partita con grande tensione. Mi sono disperato quando l’Inghilterra era passata in vantaggio nei primi minuti e ho esultato dopo il pareggio dell’Italia. I rigori che hanno deciso la partita sono stati altrettanto carichi di tensione. Solo all’ultimo rigore ho tirato un sospiro di sollievo: l’Italia era campione, mentre l’Inghilterra si contorceva in preda a un’autoumiliazione fin troppo familiare.
Da sempre il calcio sembra ispirare il meglio e il peggio. Ma perché un keniano come me si è sentito così coinvolto dal dolore inglese?
Poco dopo sono arrivate notizie di folle razziste di tifosi bianchi inglesi che attaccavano gli italiani e gli inglesi di colore che avevano assistito alla partita. I tre giovani giocatori neri inglesi che hanno sbagliato i rigori hanno dovuto subire anche delle terribili violenze in rete, spingendo la Football association (la federazione calcistica inglese) e il primo ministro Boris Johnson a rilasciare dichiarazioni di condanna.
Da sempre in molti paesi il calcio sembra ispirare il meglio e il peggio. Ma perché un keniano come me, guardando gli Europei a migliaia di chilometri di distanza, si è sentito così coinvolto dal dolore inglese? I tifosi inglesi non sono gli unici al mondo a comportarsi in modo abominevole. Il razzismo è diffuso in tutti i club europei e nel calcio internazionale, e la violenza dei tifosi è sempre dietro l’angolo.
Un comportamento simile provocherà sempre risentimento, ma nel caso inglese, apparentemente unico, si fondono l’arroganza, la convinzione che tutto gli sia dovuto e la vuota spacconeria abbinata a una storia di dominio e violenza verso il resto del mondo. Tutto questo provoca un tipo speciale di ostilità. “L’Inghilterra è giudicata con un metro diverso rispetto agli altri paesi”, ha osservato nel 2018 lo scrittore irlandese Lee Hurley in un articolo sulle origini delle accuse d’arroganza inglese ai Mondiali di calcio.
A quanto pare, ogni anno il mondo deve assistere agli inglesi che si battono il petto per l’ultimo fallimento della loro squadra e invocano il 1966, l’ultima volta che il paese ha vinto un importante trofeo calcistico internazionale. La cosa spesso rasenta il comico involontario e ispira la derisione altrui. The National, un quotidiano scozzese indipendentista, alla vigilia della finale degli europei ha messo in prima pagina una foto del commissario tecnico italiano Roberto Mancini ritratto come l’eroe scozzese William Wallace e ha scritto: “Roberto salvaci. Sei la nostra ultima speranza (non potremmo sopportare che ce la menino per altri 55 anni)”.
A volte, tuttavia, questa fissazione inglese per la vittoria di un trofeo calcistico può anche essere percepita come un profondo smarrimento per un destino incompiuto, un’estensione dell’idea che gli inglesi siano nati per dominare il mondo. Certo, lo stesso si potrebbe dire del Brasile e delle storie di tifosi che hanno avuto attacchi di cuore dopo le sconfitte ai Mondiali. Ma il Brasile non ha navigato intorno al mondo brutalizzando e saccheggiando interi paesi e allo stesso tempo presentandosi come l’apice dell’ingegno umano. Gli inglesi sono giudicati attraverso la lente della loro stessa storia.
Anche altre ex potenze coloniali hanno partecipato agli Europei di calcio. Spagnoli, francesi, belgi e portoghesi hanno storie altrettanto terribili e si sono comportati altrettanto male. Tuttavia, la capacità di proiettare le loro voci nei mezzi d’informazione globali è molto inferiore a quella dei britannici che, insieme ai loro cugini statunitensi, possono mettere in ombra qualunque altro popolo. L’eco dei mezzi d’informazione fa sì che persone di tutto il mondo, e specialmente del mondo anglofono, siano costantemente assalite da rappresentazioni di sé britanniche e inglesi spesso in contrasto con le loro esperienze vissute di dominio coloniale.
La coppa non torna a casa
In queste circostanze anche episodi apparentemente banali e innocui destinati a definire l’umore di una nazione possono assumere sfumature minacciose. Prendiamo lo slogan “It’s coming home”, che è un verso di una canzone autoironica del 1996 composta da due comici. Per molti inglesi è uno slogan innocuo, simile a quelli usati dai tifosi quando definiscono le proprie squadre le migliori del mondo. La Grecia, per esempio, scelse “Welcome home” (benvenuti a casa) come motto ufficiale dei Giochi olimpici del 2004. Tuttavia, fuori dall’Inghilterra la gente ha avuto una sensazione diversa. “Per molti, in tutto il mondo, specialmente per quelli che ancora vivono un’eredità post-coloniale”, scrive Hurley, “la nazionale di calcio inglese è un simbolo dello stato britannico. Non sorprende che alcune persone non siano così affezionate all’Inghilterra quando compare sul palcoscenico mondiale. Quando poi l’Inghilterra comincia a parlare di riportare qualcosa al posto che le spetta, beh, si può capire come questo possa causare qualche problema”.
Sulla scia del movimento statunitense Black lives matter, che ha scosso il mondo con le relative richieste di ripensare le storie di schiavitù e oppressione coloniale, slogan come “It’s coming home” possono sembrare completamente fuori luogo. E suonano ancora peggio nel contesto di una nazione che rifiuta fermamente di riesaminare il proprio passato e invece sembra glorificare “l’impero”, mentre i suoi leader politici incoraggiano i tifosi a fischiare i giocatori che prendono posizione contro l’iniquità del sistema.
A differenza dell’Italia, l’Inghilterra ha messo in campo una delle squadre più etnicamente eterogenee del torneo, e tutti i giocatori della finale, tranne quattro, erano di origine straniera. Come ha detto Clint Smith su The Atlantic, la nazionale del 2021 è molto diversa dalla squadra tutta bianca che vinse i Mondiali più di mezzo secolo fa e, sotto vari punti di vista, la sua composizione etnica differisce dal paese, prevalentemente bianco, che rappresenta. È una squadra adottata da molte comunità minoritarie emarginate dell’Inghilterra come prova della loro inclusione, della loro appartenenza e del loro contributo al paese. Anche se Smith non è inglese né vive in Inghilterra, coglie i sentimenti di molti quando dice: “Forse sto tifando meno per l’Inghilterra paese e più per il tipo di futuro rappresentato da questa nuova generazione di calciatori”.
Un certo Tariq Jenner su Twitter ha espresso la stessa cosa in modo più diretto: “Voglio che l’Inghilterra vinca, perché voglio che questa giovane squadra di antirazzisti, che si è battuta per i propri ideali e per i meno fortunati di loro nonostante i fischi e le intimidazioni, vinca. Non perché sento che questa piccola immondizia di paese piovoso se lo meriti”.
Come essere umano, mi spiace per i giocatori dell’Inghilterra, sulle cui giovani spalle sono stati caricati i pesi ingiusti della storia del paese e le sue speranze di redenzione. Eppure, nonostante questo pesante onere, hanno interpretato in modo elettrizzante il gioco e il torneo. Complimenti. Come keniano, però, non nasconderò più di tanto la mia quota di bonaria Schadenfreude per i guai e le inevitabili autoflagellazioni inglesi. E resto in attesa dei prossimi Mondiali, quando potremo rifare tutto questo da capo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato da Al Jazeera.
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