L’Africa in soccorso delle democrazie occidentali
La democrazia può confondere. Nell’arcipelago centrosettentrionale britannico, un piccolo gruppo di isole solitarie, insipide e piene di malattie, al largo delle coste dell’Europa subscandinava, il primo ministro Boris Johnson, di orientamento autoritario, rimane aggrappato al potere nonostante si sia “dimesso”. Dopo una rivolta dei legislatori del partito al governo, guidati da deputati appartenenti a minoranze etniche, Johnson ha formato un’amministrazione di transizione che comprende molte delle stesse persone che stanno cercando di rovesciarlo. Pur rimanendo in carica, Johnson ha promesso di non lavorare molto, di non introdurre nuove politiche e sembra intenzionato a passare gran parte del tempo a organizzare il suo matrimonio.
Non è così che la maggior parte di noi immagina il governo del popolo, dal popolo e per il popolo. Un paese con una costituzione immaginaria e nessun meccanismo per rimuovere un governante in carica, qualora si trovasse in zone meno inospitali del pianeta, attirerebbe probabilmente altri appellativi dalla stampa internazionale. Quando spetta a un comitato centrale del Partito conservatore al potere decidere le regole per la nomina del prossimo leader, attraverso un voto dei membri del partito, la cosa comincia a somigliare al sistema praticato da paesi come la Cina. Paesi che, come molti concordano, non sono esattamente democratici.
Se a ciò si aggiungono i tre anni di regno di Johnson, che hanno provocato quasi trecentomila morti, la sua inettitudine che ha fatto crollare l’economia britannica, le sue buffonate populiste, la corruzione e la criminalità che hanno prosperato sotto il suo governo, nonché la sua spinta coordinata nel limitare le libertà politiche, come la libertà di protesta, il paese comincia a somigliare a un altro gruppo di paesi dell’America Centrale e dei Caraibi, solitamente indicati come repubbliche delle banane.
Descrizioni sprezzanti
Il modo in cui i mezzi d’informazione di tutto il mondo usano il linguaggio per suddividere il pianeta mi ha sempre affascinato. Nel suo libro del 2011, Professional communication: legal and ethical issues (Comunicazione professionale: questioni legali ed etiche), la docente Rhonda Breit, ex avvocata e giornalista, osserva che i giornalisti “sono impegnati in un lavoro di creazione di confini e di costruzione di comunità”, che distingue tra la società a cui devono rendere conto e “l’altra”. Il linguaggio è uno degli strumenti dei giornalisti per fare questa distinzione. Ci sono frasi e descrizioni, di solito benevole e familiari, che sono riservate alle società di cui si considerano parte, mentre altre, di solito sprezzanti e ostili, sono usate per quelle che considerano diverse.
Che si tratti di descrivere disastri, naturali o provocati dall’uomo, o eventi politici, le parole riflettono spesso questi pregiudizi e preconcetti. Se per esempio gli eventi nel Regno Unito, un paese diviso in tribù, fossero accaduti in Africa, ci offrirebbero probabilmente racconti di tensioni tribali, previsioni di violenze future, e analisi delle risorse naturali che rendono questi paesi degni di attenzione.
Il senso di superiorità può condurre i giornalisti su strade ridicole
Ma una simile discriminazione rende un profondo disservizio alle società che i giornalisti credono di servire, convincendoli che queste siano in qualche modo intrinsecamente diverse dal resto del mondo, immuni dai problemi che lo affliggono. Quando questi problemi si fanno strada nell’immaginario, sono trattati come anomalie, non come sintomi di fallimenti sistemici. E così, l’esperienza di Donald Trump non ispira discorsi di riforma negli Stati Uniti, un paese altrettanto devastato dalle malattie e dalle armi, un’altra grande repubblica delle banane. Né è verosimile che la vicenda di Boris Johnson faccia lo stesso per il Regno Unito.
La verità è che il senso di superiorità può perfino condurre i giornalisti su strade ridicole, come quando una conduttrice della rete statunitense Fox News, Emily Compagno, inventa “fatti alternativi” sul fatto che le donne incinte del Kenya non possano uscire di casa o votare per sostenere la sua posizione secondo cui le donne statunitensi non sarebbero oppresse.
Eppure per decenni i due paesi hanno zelantemente dispensato consigli sulle riforme democratiche alle nazioni del “terzo mondo”, molte delle quali hanno di conseguenza rafforzato le loro istituzioni. Nel frattempo, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno lasciato decadere e atrofizzarsi i sistemi e le istituzioni di salvaguardia della democrazia, mai particolarmente forti nel proteggere i diritti delle minoranze. Sono così convinti della loro superiorità che l’idea di dover riformare pratiche e codici secolari, costruiti per un’epoca diversa e carichi di credenze e pregiudizi delle generazioni precedenti, sembra del tutto inconcepibile .
Oggi forse tocca a paesi come il Kenya, e a organizzazioni continentali come l’Unione africana, ricambiare il favore e inviare esperti di democrazia negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Dovremmo cercare di sostenere le organizzazioni che lavorano dal basso per la riforma costituzionale ed elettorale, oltre a contribuire all’educazione civica di popolazioni che sembrano cadere troppo facilmente preda delle sirene della demagogia. E, più di tutto, dovremmo concentrarci sullo sviluppo dei mezzi d’informazione e sull’educazione ai media. Come africani, dovremmo renderci conto che è nostro dovere stare dalla parte dei cittadini statunitensi e britannici, e sostenere le loro aspirazioni alla democrazia e a un governo responsabile e trasparente.
(Traduzione di Federico Ferrone)