A Sanremo va in scena la fine della canzone sanremese
Una volta esisteva il pezzo perfetto con cui presentarsi al festival di Sanremo e provare a vincere. Era proprio una specie di formula. Quasi tutti battevano quella strada e la gara finiva lì. Era così da decenni, ma questa forma d’accanimento risale soprattutto agli ultimi vent’anni. In sintesi: un lento per archi e pianoforte; quasi sempre con un crescendo che esplode al secondo ritornello; il testo coglie un sentimento nazionalpopolare e racconta cadute quotidiane o grandi amori avuti o persi, in cui è facile ritrovarsi. Le ultime Brividi di Blanco e Mahmood, Due vite di Marco Mengoni e Fai rumore di Diodato sono tutte canzoni sanremesi, per quanto di qualità. Perché non era, e non è, questione di merito, ma di stile.
C’entrano il mercato musicale, la poca voglia di rischiare delle etichette discografiche e l’importanza delle aspettative del pubblico: Sanremo serve agli artisti in cerca di rilancio o, negli ultimi tempi, in cerca di una legittimazione ad alti livelli, e un brano comodo, in linea con ciò che le persone vogliono, un classico istantaneo da salotto tv, garantisce un effetto confortevole, non spiazzante. Come se per entrare nel giro dei grandi servisse poi adattarsi, al giro dei grandi. In più, sono canzoni di natura invernale, buone per occupare la promozione dell’artista fino a primavera inoltrata, quando poi arrivano i singoli estivi.
Ecco, l’edizione del 2024 sancisce la fine del dominio della canzone sanremese sulle altre. Al di là di chi vincerà, e al di là della qualità. Gli unici pezzi che possono rientrare nella categoria sono Fino a qui di Alessandra Amoroso, Ti muovi dello stesso Diodato (che però non ha l’epica di Fai rumore) e Ricominciamo tutto dei Negramaro, tutta costruita con acuti, citazioni di Battisti (e quindi di nuovo del canzoniere popolare) e un arrangiamento classico perfino per gli standard della band.
Il volo – campione del settore con Grande amore, del 2015 – con Capolavoro prova pure a svecchiarsi un po’, senza risultati. I giovani che passano alle ballate lo fanno sulla scia di Tananai (Tango), cioè per farsi prendere sul serio: Sangiovanni con Finiscimi, Maninni con Spettacolare.
Gazzelle invece fa semplicemente Gazzelle, canta una ballata delle sue, in stile brit pop, e sembra correre a parte: non per vincere, non per gli ascolti, solo per i fan (non sono pochi) nel segno di una strana e ostinata coerenza che, almeno a Sanremo, è una notizia. A sorpresa poi, i più anziani, da cui ci si aspettava proprio la canzone sanremese, vanno in controtendenza, ed è indicativo: da Fiorella Mannoia con lo stile latino di Mariposa fino al rock classico di Loredana Berté (Pazza). Ma a parte Negramaro e Amoroso – che per motivi di televoto, e vista la base solida di fan, potevano osare di più – è difficile che tutti loro lasceranno tracce significative, soprattutto dopo che il festival sarà finito.
Andrà meglio, semmai, alla maggior parte degli altri brani, tutti un po’ simili e aziendalisti, pensati per usare l’Ariston come trampolino e avere successo nei prossimi mesi. S’ispirano all’elettronica, alla dance con la cassa in quattro quarti che domina questa edizione e soprattutto, da anni, le classifiche di streaming, prima ancora che le radio. Sono pezzi che non hanno niente di invernale, ma si candidano già a essere tormentoni estivi in anticipo. Anche se, va detto, la prospettiva è quella di un generale appiattimento della musica italiana verso quei modelli.
Succede ad Annalisa, campionessa d’incassi nel 2023, favorita per la vittoria finale. Quand’era in cerca d’autore andava all’Ariston con pezzi superclassici, mentre ora che ha trovato la quadra con un pop sfacciato canta Sinceramente, in pratica un tormentone annunciato. Succede ai The kolors, che nonostante le smentite di rito propongono una seconda Italodisco. E succede ad Angelina Mango, la migliore fra questi ultimi, con La cumbia della noia, che se non altro allarga i riferimenti. L’elettronica c’è sia dove ce la si aspetta – in Onda alta di Dargen D’Amico, tra i pochi a mescolare nazionalpopolare e sociale, ma anche in Il cielo non ci vuole di Fred De Palma – sia dove fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, da Apnea di Emma a Ma non tutta la vita dei Ricchi e poveri.
Invece il rap, che con Amadeus è ormai di casa, grossomodo soffre del solito problema: da musica che rompe con la tradizione, in riviera scende puntuale a compromessi con le famiglie in ascolto. Il migliore è Geolier, che in I p’ me tu p’ te’, oltre a riportare il napoletano in gara, aggiunge un elemento elettronico, in stile Liberato, a un hip hop credibile, di strada. Stessa formula per BigMama, concentrata sul racconto di una storia personale difficile e però troppo sulla scia di Cenere di Lazza, che un po’ detta la via. Mr Rain (Due altalene) e Irama (Tu no) sono forse i due più vicini al pezzo classico di Sanremo, aggiornato con l’urban per suoni ed estetica. Ghali invece fa il giro e arriva direttamente all’elettro-pop (Casa mia), in una sorta d’incrocio tra Jovanotti e Michael Jackson. Rose Villain, Santi Francesi, Clara, La Sad e Bnkr 44 un po’ si perdono in un festival di trenta canzoni, ma sembrano comunque, in un modo o in un altro, disinteressati alla tradizione.
La sensazione, semmai, è che si stia pensando all’estate, con canzoni pop o urban, un ritmo ballabile, un immaginario ultra-contemporaneo, perfino usa e getta, ma che scappa dalla trappola del “senza tempo” (una locuzione che, se non si scrive un capolavoro, è una tomba). Il migliore è Mahmood, che con Tuta gold mischia elettronica più meditativa, rap, cantautorato e tradizione sarda. È l’unico, insieme ad Angelina Mango, che ragiona fuori dalle gabbie dei genere, che rischia e in parte sorprende.
L’aveva già fatto al debutto nel 2019, con l’r&b di Soldi, battendo tra l’altro Ultimo in volata (grande canzone sanremese, la sua), ma quello era un periodo in cui brani del genere erano ancora l’eccezione: da Luce (tramonti a nord est) di Elisa, del 2001, a Tutti i miei sbagli dei Subsonica, che però all’inizio dei duemila fecero più rumore fuori dall’Ariston che dentro. Ora l’eccezione è guardare fuori dal pop con ispirazioni dance, mentre la canzone sanremese non è più lo standard.
E questa è l’ultima tappa della rivoluzione di Amadeus, che non ha mai avuto la musica al centro, ma il cambiamento del festival, e della sua percezione. Oggi – e qui il merito è dei risultati commerciali: nell’ultima edizione il 94 per cento dei concorrenti ha ottenuto almeno un disco d’oro o di platino – l’Ariston non è più un passaggio per chi vuole rilanciarsi, ma una tappa obbligata, centrale, un Festivalbar di nuova generazione. È il posto dove essere, popolare sui social network, rivalutato dai ragazzi, ambito dagli sponsor che hanno colonizzato gli spazi.
Lo dimostrano le grandi etichette che mandano i loro artisti migliori (Annalisa, Geolier e Negramaro sono tre colossi), ma lo dimostra anche l’assenza di outsider, alternativi, progetti di nicchia. Sanremo, insomma, ha aperto le porte, cambiato pubblico e immagine ed è rimasto ad aspettare: la grande discografia, con i suoi gusti che c’entrano poco con la tradizione grigia e impopolare del festival, è tornata e si è ripresa tutto.
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