Tra gli esperti è in corso un interessante dibattito sul destino del dollaro americano. Il dollaro è la moneta in cui si svolgono le transazioni internazionali tra paesi e in cui sono espresse le riserve valutarie dei governi, delle multinazionali e dei produttori di petrolio, di gas naturale e altre materie prime.

La discussione ha cominciato a suscitare l’attenzione della stampa ad aprile, in occasione del vertice del G20 di Londra. Due mesi dopo il tema è tornato di attualità a Ekaterinburg, in Russia, sede del vertice dei capi di governo di Brasile, Russia, India e Cina, i cosiddetti Bric. L’andamento dell’incontro ha indotto gli osservatori a ipotizzare la nascita di una coalizione internazionale che potrebbe ridimensionare la potenza dello zio Sam.

Secondo un’interpretazione innocente di questi vertici, sarebbe preferibile che gli scambi monetari mondiali si basassero su un ventaglio di valute internazionali invece che una sola, perché se la moneta di riferimento crollasse trascinerebbe nella sua rovina anche molti paesi incolpevoli.

È la stessa cosa che propose il grande economista John Maynard Keynes nel 1944, quando ipotizzò la creazione di un’unità monetaria internazionale, il bancor, per evitare che il mondo continuasse a compiere tutte le transazioni economiche in dollari. Sarebbe stata una buona soluzione per la comunità internazionale e anche per gli Stati Uniti.

Ma Washington, che aveva le tasche piene di dollari, bocciò la proposta di Keynes. Ovviamente, fa piacere sentirsi il gallo del pollaio. Per giunta, se la tua valuta è la più importante del mondo, puoi accumulare nella più totale impunità colossali deficit della bilancia commerciale e disavanzi delle partite correnti, cosa che non può fare un paese piccolo con una valuta secondaria, come l’Islanda o la Corea del Sud.

Ma è possibile anche un’interpretazione più maliziosa della mossa dei Bric. Sembra infatti nella natura delle cose che alcuni grandi paesi nutrano un’irriducibile avversione per la potenza egemone. E questo anche quando questa potenza assolve abbastanza bene il suo compito.

Quindi, se quattro economie emergenti come il Brasile, la Russia, l’India e la Cina decidono di riunirsi, non sorprende che discutano del sistema commerciale e finanziario internazionale e del modo per rendersi più indipendenti dagli Stati Uniti, dato che l’America ha dimostrato di poter mettere in crisi l’economia mondiale con i suoi mutui subprime, le sue banche pessime e la sua posizione dominante sul mercato valutario. E allora perché non rendere più fluidi gli scambi commerciali adottando un “paniere delle valute” più equo?

Recentemente mi sono imbattuto in un articolo straordinario. S’intitola The World Supremacy of the Dollar at the Rendering (1917-2008) – la supremazia mondiale del dollaro alla resa dei conti – e il suo autore è un formidabile studioso italiano: Antonio Mosconi del Centro Einstein di studi internazionali di Torino (Cesi).

L’articolo spiega che il dollaro ha già vissuto due vite, la prima da valuta di un potente paese creditore (dagli anni venti ai sessanta), la seconda da valuta di un “impero del debito”, dagli anni settanta a oggi. Nel futuro vedremo aumentare di molto l’indebitamento dei paesi di tutto il mondo, semplicemente a causa delle dissennate svendite settimanali di buoni del tesoro americano.

È impossibile riassumere in poche frasi l’elegante e impietosa descrizione fatta da Mosconi del modo in cui il governo statunitense sfrutta sulla scena finanziaria internazionale la sua capacità di stampare dollari. Ma la conclusione è chiara: “Questa crisi è diversa dalle altre: è l’ultima convulsione del ruolo internazionale del dollaro”.

In futuro, secondo Mosconi, gran parte del mondo prenderà iniziative per non restare in balìa delle decisioni autistiche del tesoro americano e della Federal reserve. E a quel punto ci sarà la resa dei conti…

Staremo a vedere. Considerato il nervosismo attuale dei mercati mondiali, le probabilità di assistere a un aumento del valore di scambio del dollaro o a un suo brusco calo sono le stesse. Però oggi un unico paese, pur avendo solo il 5 per cento circa della popolazione del mondo, produce più o meno il 20 per cento del pil mondiale, rappresenta da solo quasi il 50 per cento della spesa mondiale per la difesa, e stampa liberamente banconote che costituiscono il 65-70 per cento delle riserve mondiali di valuta estera.

A credere alla teoria della “convergenza” sostenuta da molti economisti – secondo cui il pil e il reddito di imprese, regioni e paesi diversi si avvicineranno sempre più – la conclusione è chiara: man mano che Cina, India, Corea del Sud, Brasile, Messico e Indonesia accorciano le distanze, la quota di potere mondiale che è in mano agli Stati Uniti subirà una contrazione.

Insomma, prima o poi assisteremo a un nuovo, grande spostamento nei rapporti di forza a livello globale.

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