Una giornalista coraggiosa condannata nelle Filippine
La condanna della giornalista filippina Maria Ressa e del suo ex collega, il ricercatore e scrittore Reynaldo Santos Jr, avrà sicuramente delle serie implicazioni per la democrazia nelle Filippine.
La mattina del 15 giugno un tribunale di Manila li ha giudicati colpevoli di “ciberdiffamazione” per una storia pubblicata nel 2012 sul sito di notizie Rappler, che Ressa ha fondato e che ora dirige. Il giudice li ha rilasciati su cauzione in attesa dell’appello, ma se lo perdono potrebbero passare fino a sette anni in carcere.
Per raggiungere il verdetto, il giudice ha dovuto accettare le esili argomentazioni dell’accusa. In primo luogo, che il sito aveva violato la legge sulla “ciberdiffamazione”, anche se la storia è stata pubblicata quattro mesi prima che la legge entrasse in vigore. Il giudice ha stabilito che Rappler aveva “ripubblicato” la storia quando, nel 2014, ha corretto un errore di ortografia, rendendola così sottoposta alla nuova legge. Il giudice ha anche accettato la teoria dell’accusa della “pubblicazione continua”, aggirando così il fatto che nelle Filippine la prescrizione per il reato di diffamazione è di un anno.
Secondo le parole del Sindacato nazionale dei giornalisti, si è trattato di “un’accusa spudoratamente manipolata” e di un “atto di persecuzione da parte di un governo prepotente”. Amal Clooney – inviata speciale del Regno Unito per la libertà dei mezzi di comunicazione e uno degli avvocati di Ressa – ha descritto il caso come “uno dei più sfrontati e significativi degli ultimi dieci anni”.
Il presidente Rodrigo Duterte chiama abitualmente i giornalisti “spie” e “figli di puttana”
Come giornalista che è stato sul banco degli imputati e ha ascoltato un verdetto di colpevolezza dopo un processo farsa, capisco profondamente quello che Ressa e Santos stanno passando. Quando ho sentito la notizia, ho provato un’inquietante e familiare stretta allo stomaco, sapendo – sentendo – lo stress che stanno subendo. Ma la questione di gran lunga più importante è l’impatto di questo verdetto su tutto il paese e sulla regione in generale.
Le Filippine sono una delle nazioni più pericolose al mondo per i giornalisti. Il Comitato per la protezione dei giornalisti calcola che negli ultimi trent’anni 145 professionisti dell’informazione hanno perso la vita.
Il presidente Rodrigo Duterte chiama abitualmente i giornalisti “spie” e “figli di puttana”, e una volta ha suggerito che la maggior parte di quei reporter che sono morti in qualche modo se lo meritavano. “Non verrete uccisi se non farete qualcosa di sbagliato”, ha detto.
Duterte ha anche preso di mira e ha costretto alla chiusura Abs-Cbn, la più grande azienda di comunicazione delle Filippine, mentre i proprietari del più grande quotidiano del paese, il Philippine Daily Inquirer, sono stati costretti a vendere il giornale a un alleato di Duterte dopo aver pubblicato notizie ed editoriali critici sulle numerose morti che si sono accumulate durante la sua campagna di lotta alla droga.
Presenze scomode
Naturalmente a nessun governo piacciono i giornalisti. Quando fanno il loro lavoro – come Rappler – costringono chi è al potere a rispondere delle conseguenze delle sue scelte politiche. E dopo che un leader autoritario è riuscito a schiacciare le altre forme di controllo democratico, come il parlamento o la magistratura indipendente, non resta che una pericolosa squadra armata di penne, macchine fotografiche e microfoni.
E se questo caso è importante per la democrazia nelle Filippine, lo è anche per la regione in senso lato. Nel suo ultimo rapporto, il gruppo di difesa dei diritti umani Freedom House ha detto che “i diritti politici e le libertà civili sono complessivamente in declino in Asia, poiché i governanti autoritari hanno mostrato il loro disprezzo per i valori democratici”.
Il verdetto contro Ressa, e l’assalto alla libertà di stampa, accelerano questa tendenza. Sappiamo per triste esperienza che tendenzialmente quando i regimi autoritari estendono il loro potere, a ruota arriva l’instabilità.
In passato, gli Stati Uniti sono stati all’avanguardia nella difesa di valori democratici liberali come la libertà di stampa, lo stato di diritto e i diritti umani. Eppure il presidente Donald Trump ha senza vergogna stretto amicizia con uomini come il presidente Duterte, invece di criticarli, e poco probabilmente ora dirà qualcosa.
A questo punto altre democrazie come il Regno Unito e l’Australia avrebbero il compito di aprire la strada.
Il libro bianco sulla politica estera dell’Australia pubblicato nel 2017 diceva che promuovere la trasparenza, la responsabilità e lo stato di diritto nella nostra regione è uno degli obiettivi chiave del governo.
L’anno scorso il Regno Unito e il Canada hanno ospitato congiuntamente la prima Conferenza globale sulla libertà dei mezzi di comunicazione a Londra, come risposta a una preoccupante deriva globale della libertà di stampa. Se tali governi credono veramente nella protezione di questi princìpi democratici fondamentali, devono parlare a voce alta e con forza a sostegno di Ressa e dei suoi colleghi di Rappler.
Nel corso di una conferenza stampa, dopo la sentenza, Ressa si è rivolta direttamente ai giornalisti. “È un duro colpo per noi. Ma non è inaspettato”, ha detto. “La vicenda di Rappler dev’essere un’ammonizione. Vuole spaventarvi. Ma non abbiate paura. Perché se non usate i vostri diritti, li perderete”.
Parlava con i suoi connazionali, ma avrebbe anche potuto rivolgersi a tutti noi.
Peter Greste è un giornalista australiano. È stato corrispondente dal Medio Oriente e dall’Africa per la Reuters, la Bbc, la Cnn e Al Jazeera. Nel dicembre del 2013 è stato arrestato in Egitto con l’accusa di aver diffuso notizie false. È stato liberato ed espulso dal paese il 1 febbraio 2015. Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.