In Italia, la decisione della mia collega Hélène Fontanaud (ex Reuters, Europe1, La Tribune, Les Inrockuptibles, Sipa News) di abbandonare “definitivamente” il giornalismo – seguendo altri esempi – per diventare l’addetta stampa del Partito socialista francese non meriterebbe neanche una breve. In Italia esiste da tempo un rapporto di stretta familiarità tra il mondo dell’informazione e la politica.

Da quando sono a Roma, non so quante volte ho sentito gli addetti stampa dei partiti chiamarmi “caro collega”, con il pretesto di aver esercitato in passato la stessa professione e di pensare di riprenderla un giorno, quando si saranno stancati del fascino della frequentazione del potere o quando il loro “padrone” (deputato, senatore, ministro) sarà stato ripudiato dagli elettori.

Questo dipende soprattutto dal fatto che la politica ha invaso giornali e tv, li organizza e talvolta li dirige. I giornali sono quasi tutti di destra o di sinistra e a quanto pare l’appartenenza politica di un giornalista sembra essere importante tanto quanto la qualità dei suoi articoli. Per non parlare poi della tv pubblica, dove le reti televisive, i posti nel consiglio di amministrazione, gli incarichi direttivi vengono attribuiti in funzione dei rapporti di forza politici nel paese. Una “spartizione del bottino” che la sinistra ha criticato quando era all’opposizione, ma che ha accettato di buon grado una volta al potere.

Un giorno, mentre cercavo un esperto musicale per preparare un articolo sul festival di Sanremo, un collega mi ha chiesto: “Cerchi un giornalista di destra o di sinistra?”. La domanda mi ha lasciato senza parole. Ma da allora mi sono abituato.

In parlamento i giornalisti sono ben rappresentati, quasi quanto gli avvocati, il che è tutto dire. È vero che per avere diritto alla qualifica di giornalista basta aver superato un esame, senza che sia necessario svolgere un’attività giornalistica vera e propria. In ogni modo la loro percentuale potrebbe aumentare ancora in occasione delle prossime elezioni.

Almeno sei giornalisti sono candidati alle prossime elezioni. Massimo Mucchetti, vicedirettore del Corriere della Sera, si presenterà nelle liste del Partito democratico (Pd), così come Corradino Mineo direttore di Rainews 24 e Rosaria Capacchione, specialista di mafia del quotidiano napoletano Il Mattino. Mario Sechi, direttore del Tempo, si presenterà invece con Mario Monti. Sandro Ruotolo, giornalista del programma

Servizio pubblico su La7, ha scelto il movimento del giudice Antonio Ingroia, Rivoluzione civile, mentre Oscar Giannino, editorialista del quotidiano economico Il Sole 24 Ore, ha trovato più semplice creare un suo partito, Fermare il declino.

In questo modo dichiarano la loro simpatia ideologica, di cui – in alcuni casi – nessuno dubitava. La loro scelta è presentata come “definitiva” da alcuni che non pensano di tornare al mestiere di giornalista. Per altri invece è considerata come una parentesi, un’avventura dalla quale – se dovesse finire male – torneranno indietro per rimettersi al calduccio della televisione o dietro un computer.

Ma perché così tanti giornalisti saranno candidati? Anche Massimo Gramellini, vicedirettore della Stampa, se lo chiede nel suo editoriale dell’8 gennaio. Perché “cercare visibilità elemosinando interviste di venti righe a quegli stessi giornali su cui prima scrivevano pagine intere? Penso che - per esempio - un ottimo giornalista come Massimo Mucchetti sia sinceramente convinto, candidandosi, di cambiare la politica. Invece temo che sarà la politica a cambiare lui o più probabilmente a respingerlo come un corpo estraneo”. Per modificare la politica “bisogna mettersi al volante della macchina. Seduti al posto del passeggero, quando non nel portabagagli, si finirà solo per rimpiangere di avere intrapreso il viaggio”.

Traduzione di Andrea De Ritis.

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