Non roviniamo la festa tricolore. La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino che ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero, era probabilmente migliore rispetto agli altri quattro film in competizione nella sua categoria. Ma i giornalisti e i politici non si sono fatti problemi a innalzarlo subito al rango di capolavoro e di punta di diamante della riscossa nazionale. Non importa che alla sua uscita, nel maggio del 2013, il film sia stato accolto da critiche contrastanti e che i suoi incassi lo releghino al diciannovesimo posto: la cosa più importante era rallegrarsi per la “vittoria dell’Italia”.

La bellezza è di moda. I presentatori del festival di Sanremo ne hanno parlato fino alla nausea: la bellezza qui, la bellezza là, tra una canzone e l’altra che non ne erano necessariamente l’illustrazione migliore. E

La grande bellezza di Sorrentino sembra destinato a fare la stessa fine, senza che nessuno si renda conto che questo titolo è sotto molti aspetti un’antifrasi colma d’ironia. La bellezza di cui si parla è in gran parte scomparsa, inghiottita dalla volgarità, dalla rinuncia e dalla delusione dei personaggi.

Jep Gambardella, il protagonista del film magistralmente interpretato da Toni Servillo, scrittore di un solo libro, diventato giornalista indolente e disincantato, ha su Roma e sui suoi abitanti uno sguardo cinico e pessimista, accompagnato da un’ironia pungente e mondana. Tra feste decadenti e cene sulla sua terrazza con vista sul Colosseo, consuma la sua vitalità fino all’alba. Il suo amico Romano (Carlo Verdone), che non trova a Roma il successo che aveva sognato come attore drammatico, se ne ritorna a vivere nel suo paese d’origine. In questo, Romano e Jep sono due perfetti esempi di un paese che non crede più in se stesso.

Contraddizione o patriottismo superficiale? In ogni modo nessuno ha voluto cedere il suo posto sul carro del vincitore, più affollato di un autobus alle otto di mattina. È un “momento di orgoglio italiano”, ha scritto su Twitter il nuovo capo del governo Matteo Renzi, mentre il suo ministro della cultura, Dario Franceschini, tra un crollo e l’altro a Pompei, ha espresso l’auspicio che la vittoria sia “per l’Italia un’iniezione di fiducia in se stessa. Quando il nostro paese crede nei suoi talenti e nella sua creatività, torna finalmente a vincere”. Il sindaco di Roma, la cui città è sfuggita per un soffio al fallimento, invita Sorrentino “a festeggiare questo successo in Campidoglio”.

La vittoria dell’Italia? Sì, ma quale Italia? “Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così”, ricordava lunedì scorso Raffaella Silipo sulla Stampa: “Splendide pietre e abitanti inconcludenti, i giovani che fuggono e i vecchi che si dipingono e si smemorano ballando”. Martedì Gianni Riotta, sempre sulla Stampa, evoca una ricompensa che “suona come un avvertimento”: “Sorrentino firma il film dell’Italia rassegnata a non avere credibilità. Continuiamo così e finiamo eleganti straccioni a guardare il passato, vincendo magari un sacco di Oscar, ma senza un domani dignitoso”.

Ma i seimila votanti di Hollywood sono fatti così. Amano l’Italia per come se la immaginano, così come tutti i membri delle giurie che hanno premiato il film in giro per il mondo prima del suo trionfo a Los Angeles. Tutti si sono emozionati per la grande bellezza talvolta così trascurata di Roma e per questo sguardo malinconico e amaro sulla penisola: chi preso dalla nostalgia - perché c’è già stato - e chi invece consumato dal desiderio - perché non c’è ancora andato. E tutti sono colpiti da una forma acuta della sindrome di Stendhal, come il turista asiatico che all’inizio del film muore scoprendo il panorama della città eterna dalla collina del Gianicolo.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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