Domenica 31 agosto il titolo occupava cinque colonne sulla prima pagina della Stampa: “Europa, primo round a Renzi”. La metafora pugilistica riflette abbastanza la formula di orgoglio, di tattica e di tenacia usata dal presidente del consiglio per imporre ai suoi partner la candidatura di Federica Mogherini a capo della diplomazia europea. Si diceva che mancasse di carisma, di esperienza, di coraggio, ma nonostante questi presunti difetti (o forse proprio grazie a questi) è lei, a 41 anni, a succedere alla baronessa Catherine Ashton come alta rappresentante per la politica estera e per la sicurezza dell’Unione europea.

Giocando la carta Mogherini all’indomani della vittoria del Partito democratico alle elezioni europee di maggio, Renzi ha messo tutti quanti di fronte al fatto compiuto. Ci si aspettava che l’Italia si candidasse per la nomina di un commissario nei settori dove è più forte (commercio, concorrenza e così via) e non nel settore della politica estera dove finora si era distinta soprattutto per la sua posizione né carne né pesce: allineamento con gli Stati Uniti e apertura nei confronti della Russia, da cui dipende per gran parte delle sue forniture energetiche.

Ma Renzi voleva un posto ad “alta visibilità”, anche se questo rimane comunque sotto la gelosa sorveglianza degli stati membri. Dopo vent’anni di berlusconismo, simboleggiato (tra le altre cose) dai calorosi incontri con Putin e Gheddafi, il capo del governo voleva che la penisola fosse considerata come una grande potenza associata alle decisioni geostrategiche, e non avvertita all’ultimo momento come era successo quando francesi e britannici avevano mandato i loro aerei a bombardare la Libia.

Il problema è che Federica Mogherini aveva contro la Polonia e i paesi baltici, che le rimproverano la sua visita a Mosca a inizio luglio e le sue sibilline affermazioni sulla crisi ucraina, che “si presta a diverse interpretazioni” e in cui “ognuno ha la sua base di verità”. Inoltre contro di lei pesava la breve esperienza di ministro degli esteri (da febbraio), una carriera di “professionista della politica” e un’attività di esperta di relazioni internazionali fatta nei diversi partiti che nel corso degli anni duemila hanno portato alla nascita del Pd nel 2007.

I giornali anglosassoni sono stati i primi a diffondere i timori dei paesi dell’ex blocco dell’est nei confronti della sua nomina. Ma Renzi si è impuntato in nome della prerogativa degli stati di scegliere liberamente il loro commissario. Herman van Rompuy aveva suggerito la candidatura di Enrico Letta, ex presidente del consiglio, ma lui se n’è disinteressato. L’editoriale di Le Monde (molto commentato qui in Italia) a pochi giorni della nomina di Federica Mogherini, che metteva in evidenza le debolezze della candidata, sembra aver rafforzato ancora di più la determinazione italiana.

Così come è riuscito a piegare il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, che avrebbe preferito che fosse riconfermata alla Farnesina la sperimentata Emma Bonino, Renzi ha saputo rimanere fermo sulla sua scelta iniziale: “la” Mogherini o nulla! E sapendo che sul grande mercato di Bruxelles tutto si scambia e si discute, ha contrattato il sostegno alla sua candidata in cambio dell’appoggio al polacco Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo e quando sarà necessario al francese Pierre Moscovici per un posto di commissario agli affari economici.

Resta il problema di cosa l’Italia vorrà fare di questa carica. Una voce italiana cosa può dare di diverso alla politica estera dell’Europa rispetto alla voce inglese e francamente poco ascoltata di lady Ashton? Quali saranno i margini di manovra di questa madre di due figli passata in 18 anni da militante della Federazione giovanile comunista al vertice della diplomazia europea?

Primo mentore di Federica Mogherini nei Democratici di sinistra, il sindaco di Torino Piero Fassino non dubita sulle sue capacità nel gestire la nuova funzione. “Federica conosce i codici, i protagonisti, le reti, le lingue delle relazioni internazionali”, ci spiega. “La sua autorità non dipende da lei ma dall’intera Unione europea. Fino a quando quest’ultima non deciderà di fare un salto di qualità in materia di politica estera, farà sempre fatica a farsi sentire”.

Ma per Renzi la cosa più importante è stata fatta, cioè dimostrare che può trasferire a livello europeo i suoi metodi di gestione umana (la cosiddetta rottamazione), imporre dei personaggi nuovi nonostante i dubbi che pesano su di loro. Mentre l’Italia è di nuovo minacciata dalla recessione nonostante le riforme promesse, questo successo a Bruxelles può far dimenticare - almeno temporaneamente - i fallimenti romani.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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