Matteo Renzi a “Che tempo che fa”, il 28 settembre 2014. (Tony Reed, Splash News/Corbis)*

La prima vera battaglia politica di Matteo Renzi è cominciata il 24 settembre in senato contro una parte del suo stesso schieramento. Quando ha annunciato la volontà di riformare e semplificare la legislazione sul lavoro, il presidente del consiglio sapeva che si sarebbe scontrato prima o poi con l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, al tempo stesso totem e tabù della sinistra e dei sindacati. Scritto nel 1970, il famoso articolo 18 protegge i lavoratori a tempo indeterminato nelle imprese con più di 15 dipendenti, consentendo a una persona licenziata senza giusta causa di impugnare questa decisione davanti a un tribunale per chiedere il reintegro e un’indennità.

Nonostante il suo ambito di applicazione sia stato ridotto nel 2011 dal governo di Mario Monti, l’articolo 18 continua a interessare circa tremila casi all’anno in Italia, dove il 50 per cento dei lavoratori beneficia di un contratto a tempo indeterminato (sono il 60 per cento in Francia e Germania e più del 70 per cento nel Regno Unito). Numerosi imprenditori lo considerano un freno alle assunzioni. Secondo Renzi, rende il mercato del lavoro italiano simile a un regime di apartheid tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e chi ha solo degli impieghi precari.

Di fronte a un tasso di disoccupazione in continua crescita (12,3 per cento, percentuale che sale al 42 per cento tra i giovani), a un nuovo periodo di recessione, all’impazienza delle istituzioni europee, il presidente del consiglio vuole accelerare l’adozione di nuove regole ispirate al “modello danese” (flexicurity). La sua proposta seppellirebbe l’articolo 18 a vantaggio di un rafforzamento degli ammortizzatori sociali commisurati alla carriera del dipendente all’interno dell’azienda. Il capo del governo si è posto l’obiettivo di farla approvare in prima lettura, se necessario a colpi di decreto, prima dell’8 ottobre, quando a Milano si terrà una conferenza su lavoro e crescita.

Tutti i governi di destra o di centro hanno sognato di rilanciare il mercato del lavoro semplificando le norme. Ma tutti hanno dovuto arrendersi o correggere il tiro di fronte all’ostilità dei sindacati e dei partiti di sinistra. Anche stavolta ci sono le condizioni perché il dibattito diventi una battaglia ideologica. Il 19 settembre Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, la confederazione sindacale più potente, ha accusato Matteo Renzi di “thatcherismo” e ha chiamato i suoi a manifestare. L’ex segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, rimasto in disparte dopo la sua “non vittoria” alle elezioni del febbraio 2013, ha assunto la guida di una fronda costituita da una quarantina di parlamentari del partito per riuscire ad aprire una mediazione. Qualsiasi somiglianza con i dibattiti in corso nella sinistra francese non è casuale.

Matteo Renzi riuscirà dove gli altri hanno fallito? Di certo ha in mano delle carte che gli altri non avevano. È il segretario eletto del Pd, che lui ha reso, alla luce dei risultati conseguiti alle elezioni europee, il partito più forte d’Europa. Non gli si può rimproverare di “rinnegare i suoi valori”, perché si è sempre presentato come un moderato. Gode di una popolarità del 50 per cento che lo mette al riparo da una contestazione di ampia portata e gli consente di ignorare gli intermediari e rivolgersi direttamente ai cittadini. Inoltre il fronte sindacale si sta disgregando. Infine, Renzi gode dell’appoggio della destra e del presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Quest’ultimo, che ha trascorso la sua intera carriera nel Partito comunista, non può essere sospettato di thatcherismo quando si rivolge al Pd e ai sindacati chiedendo di “uscire dal conservatorismo e dal corporativismo”.

Mentre a Roma impazza il dibattito tra la vecchia sinistra, presentata come “arcaica”, e la nuova sinistra, definita “moderna e pragmatica”, Renzi ha approfittato della sua agenda internazionale per indicare, casomai ce ne fosse bisogno, il campo in cui vuole collocarsi. A fine settembre, durante una visita negli Stati Uniti per partecipare all’assemblea generale delle Nazioni Unite, ha fatto coincidere questo appuntamento istituzionale con due visite simboliche: una nella Silicon valley, dove le parole “diritti dei lavoratori” suonano piuttosto strane, e una a Detroit alla fabbrica della Chrysler rilevata da Fiat, un’azienda da sempre contraria all’articolo 18.

Senza dubbio conquistato dall’atmosfera liberista, ha inviato questo messaggio diretto ai suoi avversari: “L’Italia in alcuni casi ha bisogno di riforme violente”. Per il capo del governo il dibattito sembra già chiuso. Ha replicato alla Cgil in un’intervista sul Wall Street Journal: “Se i sindacati sono contrari, questo non è un mio problema”. Agli imprenditori che gli consigliano di non mettere in gioco tutta la sua riforma su un “punto specifico” risponde con il silenzio. Alla minoranza del suo partito, che gli ha chiesto di negoziare, si oppone con fermezza: “Non è più tempo di compromessi, è giunta l’ora di mostrarsi coraggiosi. Il 70 per cento della direzione del partito è con me”.

Dopo essere diventato il primo segretario eletto del Pd senza aver militato nel Pci, Renzi vuole essere colui che spingerà il partito a fare un altro passo verso il futuro, convincendolo ad abbandonare uno dei pilastri della sua mitologia fondativa.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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