1. Comaneci, On my path.

Eddai, raga, eccheè. Siete due ravennati gentili, Francesca Amati dalla voce in stato interessante tipo Alela Diane, e Glauco Salvi alle chitarre in preda alla tensione. Avete avuto l’amabile pensata di chiamarvi come la minuta ginnasta delle meraviglie. Ma scrivere almeno una canzone in una lingua romanza, no? No: tutto in inglese, You a lie. Che poi scorre bene. Un po’ uniforme, ma piacevole. Ma qualche parolina latineggiante basterebbe a non finire collocati nel mare magnum degli acoustic duo (duos? duoi?), santa merenda. Che poi, lo meritate.

  1. **Hollowblue **, Sigma.

Uff, anche questi. Ma che gli ha preso? Suonano benissimo, da rockband profonda, con strutture solide, l’energetica urgenza, gli archi, la cura del suono. Hanno incassato buone recensioni da Uncut. Ma sono anche saliti a Santa Maria Novella. E allora perché si ostinano/limitano a questo inglese forzato, un po’ da alterna-Toefl? È anche un bel discaccio di carattere, il loro nuovo Wild night, quiet dreams. Ma la dimostrazione è proprio lì, alla fine di Sigma: una coda inaspettata in italiano, quasi una concessione. In realtà un regalo che fanno a se stessi.

**3. Perturbazione **, *Mao Zeitung *.

Beh, fine dei predicozzi. In quota “pop italiano di qualità” la banda di Tommaso Cerasuolo si affida, a dispetto di un titolo sino-germanico, alla nostra lingua. Scrittura intelligente; influenza sì, contagio no. Loro, pur torinesi, si abbandonano talora a un mood stile Staglieno, ma poi si rianimano e brillano. Sotto contratto con una major erano più dimessi. Senza contratto (e meno contratti) tirano fuori una delle loro canzoni più belle e cantano sardonici di “competere, competere, competere”, di Cina e pure di Montezemolo. Pot pourri sì, ma in Italy.

Internazionale, numero 820, 6 novembre 2009

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