**1. Baustelle,* Le rane***
A chiedere in giro, i Baustelle stanno relativamente poco simpatici. Molti li giudicano presuntuosi, e non abbastanza dissimili da se stessi. Presunti difetti che si possono leggere anche come qualità: hanno la loro cifra e uno stile originale. Eccoli titolare un nuovo cd con mossa battiatesca; ecco che si mettono nelle mani di un produttore di fama (l’irlandese Pat McCarthy); eccoli disseminare il tutto di simboli funebri e vanitas vanitatum; ecco che costeggiano Bianciardi e Pasolini; e bom, come pop italiano di qualità siamo a posto così, per un po’.
2. Jónsi, Time to pretend
Una passeggiata tra vecchi bookmark ha rivelato che quelli di Inkiostro hanno cambiato url (inkiostro.com) ma non la sostanza: sempre ottime battute di pesca all’ostrica dai fondali del web, librerie stravaganti e ingegnosi online games. Poi c’era la musica: quella dei Sigur Rós, in versione piano player solitario, che riprende la canzone dei Mgmt, la libera di tutte le incrostazioni elettroniche, del beat colloso e degli squittii di sottofondo e la annaffia con la sua dolente potenza vocale, restituendola alla sua natura di canto luttuoso sull’infinita vanità del tutto.
3. Pavement, Unseen power of the picket fence
“Some bands I like to namecheck / one of them is R.e.m.”. E in fondo a tutto questo disperato gioco di cose vanitose, è bello ritrovare la band a bassa fedeltà di Stephen Malkmus. L’ultima antologia è la riscoperta di un gruppo uscito dal gruppo: parlare rock fluente, mormorare in dialetto da adepti alternativi e scrivere nel corsivo situazionista di critici rock questa canzone sull’impatto dei primi Rem, per consegnare loro al passato e sé stessi al presente. Dimensione alternativa, non malvagia di quello che poi è successo.
Internazionale, numero 840, 2 aprile 2010
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