1. Jeff Bridges, What a little bit of love can do
L’edizione manierista di quel country rock che si associa con una certa faciloneria ai truck drivers, ai rednecks, all’Alabama e all’Oklahoma: musica che alimenta speranze e fa vendere birre. Bridges è ancora calato nel ruolo della vecchia gloria con chitarra di Crazy heart, e T‑Bone Burnett gli crea tutt’intorno le canzoni giuste, con le chitarre pestifere di Marc Ribot che danno sempre quel tono stonato a puntino. Insomma, l’album Jeff Bridges (e tanto basti, come titolo) è una sublime cialtroneria, e potrà spezzare cuori.
2. Lenny Kravitz, Life ain’t ever been better than it is now
Prolusione dell’anno rockademico 2011/2012; il prof. Kravitz, luminare di narcisismo, parla di sé medesimo, di come se la spassa, e di quella gran vacca grassa della sua vita. Il tutto, beninteso, in stile James Brown: ed è un bel momento di sincerità, in un calibratissimo ecumenico album, Black & white America, in cui perfeziona la sua solita dieta di ballad e funky, momenti sognanti e tante foto di sé medesimo (sulla cover: da bambino a una manifestazione per la pace! all’interno: in salotto mentre fuma il narghilè!). Soul’d out.
3. Red Hot Chili Peppers, Factory of faith
E per il buffet rockademico, riecco la tradizionale ricetta del rap bianco farcito di peperini rossi: produce Rick Rubin, saggio chef barbuto che sa sporcare la tradizione. Nel novissimo I’m with you la band più californicante del mondo torna con i suoi numeri da circo, quel modo che ha Anthony Kiedis di sminuzzare le sillabe e poi sdraiarsi sui refrain, quelle passeggiate dal pollicione pesante sul basso di Flea, quel modo funky pallido nevrotico di essere lennykravitz, la ballata meditabonda il numero dance da pogare, il gattopardesco hustle here, hustle there.
Internazionale, numero 913, 2 settembre 2011
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