1. Disquieted By, Mommy mommy corazón
Uffa, e pensare che si potevano chiamare Lords of Tagadà, sarebbe stato il nome definitivo per una band dal serio tiro punkrock all’odor di salamella, molto energetica e ruspante; e il loro album, Disquieted by, vabbè il titolo inglese di routine. E invece no, quello è il nome dell’album, e questo (incredibilmente) è quello della band. Una band fiorentina girovagante e picchiettante dal 2000? E l’etichetta che si chiama To Lose La Track? Roba da chiodi. Ma perché nessuno forma una band e la chiama Lords of Tagadà? Offresi ospitalità, qui.
2. Davide Tosches, Poco alla volta
“Tutto cresce / tutto accade / poco alla volta”. Il respiro slow, quello che s’indovina essere un notevole sforzo di produzione e pulizia e amici musici chiamati alle comparsate; l’etichetta molto off Controrecords; la solidità del tutto. Archeologie industriali della canzone d’autore; un lavorìo paziente, disinteressato all’acchiappo istantaneo, centrato su un ascolto attento. Il lento disgelo: ecco un album da degustazione, inadatto ai tempi e orgoglioso di esserlo, pieno di confidenza serena nella propria richesse intérieure di suoni, di colori, di mood.
3. Eleni Mandell, Never have to fall in love again
Californiana, classe 1969, vita complicata, senso della ballata, a lungo considerata una sorta di Tom Waits donna ma troppo brava e sfigata per avere una carriera o anche solo un contratto discografico. Ora è riemersa dalle sue lunghe ombre con un album, I can see the future, imbevuto di ottimismo conquistato con le unghie; molto southwestern anni settanta, intrecci di voci dolci e pedal steel e carezze tra i cactus nella notte e una che ha vissuto in prima persona tutte le storie, e sa benissimo come diavolo vanno raccontate.
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