1. Bianco, Jpg

“Tre mesi fa pensavo di dirti di no / ché le dramma-

dipendenti le soffro un po’ / Ma cambiare idea è di moda / e io sono Gaultier / Jean Paul Gaultier”. Jpg forse era “di moda” quando Madonna portava reggiseni dalle coppe aguzze; ora è un padre nobile franco-fashion. Ma il bello di Bianco, alt-cantautore al secondo album Storia del futuro, è che trova sempre lo scarto dal binario dell’ovvio. Ogni volta sei tentato di canticchiare con lui, poi invece viene da dirgli “che cavolo dici” o “no, questa mo’ me la spieghi” (come si dice in torinese?).

2. Mamavegas, Black fire (trust)

I verdi pascoli della Sila ispirano il loro nome; il loro concept album, Hymn for the bad things, tutto in inglese, verrà distribuito dall’iconica Rough Trade, di nicchia ma globale. Lampi nell’erba, tesori nel terriccio rock, strutture non facili, cesello a volontà e modelli alti. Fanno venire in mente Sufjan Stevens, i Radiohead, perfino il Robbie Robertson solista di Some­where down the crazy river (quelle notti country noir in Arkansas). Una volta si diceva “complesso”; a volte, quando non pensano alla loro complessità, sono perfino bravissimi.

3. Fauve! Gegen A Rhino, C’est la guerre!

Nella parte registrata in studio da Roger Waters in Ummagumma dei Pink Floyd (1969) c’è tutto un pezzo di loop e rumorini artigianali che descrive una caverna popolata da “svariate specie di animaletti pelosi”. Qui sembra di risentire lo stesso loop in versione più rudimentale. Cervellotica musica da due italiani che con l’album Polemos evocano il demone della guerra. Tempeste elettroniche, tra Ernst Jünger e le colonne sonore di quelle videoinstallazioni troppo avanti con il sangue di bue e la donna nuda che comunque salta fuori quasi sempre.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it