Anatolia engineering
1. Kutiman feat. Melike Şahin, Elimi tut
Un micidiale gancio mediorientale di Moog tra rullanti a cascata, come se fosse una sigla turca di Sandokan, e ci si ricorda di quel bel momento che aveva avuto Istanbul nel periodo tra Crossing the bridge e C’era una volta in Anatolia, prima della seconda stagione di Erdoğan. Ma poi questo Kutiman, un supereroe del multi-strumentismo, viene da Israele e si dedica a mashup e contaminazioni. La psichedelia anatolica è solo uno dei suoi pallini, ma in coppia con questa cantante della capitale turca trova il giusto groove.
2. Fleet Foxes, Young man’s game
Ha ragione Robin Pecknold da Seattle, certe cose è meglio lasciarle ai giovani. Ma non la “musica che sia simultaneamente complessa ed elementare, sofisticata e umana, propulsiva come ritmo ma con melodie come piume”: qui è nel suo. Shore, il nuovo album dei Fleet Foxes, passa per le reliquie di Brian Wilson (come il vibrafono usato per Pet sounds, ritrovato allo studio Electro-Vox di Los Angeles), ospiti e pellegrinaggi: sano feticismo della distilleria musicale, ossessione per l’audio beatitudine country. Un patrimonio immateriale da ascoltare.
3. My Gravity Girls, Daybreak
Le notti e le cuffie e i loop. I sintetizzatori vintage (l’OP-1 della Teenage engi-neering, squisitezza), gli esperimenti con i pitch, i riverberi del beat, la voce fatta ritmo, lo zio che passa a suonare quella vecchia tastiera. Un anno dopo, in studio, fuori Parma, c’è pure la band; ma intanto ogni cosa origina nella cameretta di Mattia Bergonzi, allacciato a protocolli d’interazione tra mente e strumenti. Ne vien fuori un album, I miss something and miss everyone, che ricorda gli adolescenti teneri e tenebrosi che prima o poi saremo stati anche noi.
Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati