La Berlinale 2013, almeno per me, finisce in archivio. La ritireremo fuori un po’ per volta, un film alla volta. Nel mio ultimo giorno a Berlino ho visto un solo film, il thriller di Steven Soderbergh, Side effects, che dubito passerà alla storia.

Ma l’argomento caldo era il film di Jafar Panahi, Pardé (Closed curtain). Un film realizzato all’interno di una casa, con le tende tirate. Per Panahi, sul quale pende una condanna delle autorità iraniane, non solo è impossibile lasciare il suo paese, ma non potrebbe neanche girare film. La pellicola è arrivata in qualche modo a Berlino dove soprattutto spiccava l’assenza del suo autore. Non è impossibile che vinca un Orso d’oro “politicamente responsabile”.

Sarebbe suggestivo, a quel punto, che il premio per il miglior attore andasse a River Phoenix, protagonista di Dark blood, di George Sluizer (che proprio oggi viene presentato alla stampa). Nel 1993, durante gli ultimi giorni di riprese, Phoenix, che si avviava a una luminosa carriera, è morto improvvisamente. Il film è finito in mano alle assicurazioni e non l’avremmo mai visto se il regista non si fosse prodigato a lungo per recuperarlo. Le scene mancanti, quelle ancora non realizzate, nel film sono lette direttamente dalla sceneggiatura.

La giuria presieduta da Wong Kar-wai, di cui fanno parte, solo per citarne alcuni, Tim Robbins, Susanne Bier e Shirin Neshat, probabilmente è troppo scaltra per cadere in questa suggestione. Anche perché, a quel punto, gli altri premiati potrebbero inquietarsi. Sarebbe però un segnale forte, una provocazione, per dare un colpo al mondo di un cinema che, almeno a giudicare da quello visto finora a Berlino, annaspa un po’ in cerca di nuove idee.

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