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La rivoluzione algerina e quella sudanese hanno molto da insegnare

Un murale a Khartoum, Sudan, il 14 aprile 2019. (Omer Erdem, Anadolu Agency/Getty Images)

A questo punto il parallelismo tra le rivolte popolari in corso in Algeria e Sudan è abbastanza evidente da provare a trarne alcuni insegnamenti. I due paesi, chiaramente, hanno storie e contesti diversi, ma è innegabile che grazie alla circolazione delle informazioni possano verificarsi influenze reciproche.

Nel giro di pochi giorni, Algeria e Sudan hanno visto i rispettivi eserciti, spinti dalla mobilitazione di piazza, costringere all’uscita di scena i due presidenti, quello algerino in carica da vent’anni, quello sudanese da trenta. In Sudan il capo militare che si è proclamato presidente ad interim si è dimesso dopo ventiquattr’ore. In Algeria è stata avviata una parvenza di processo costituzionale, con uno scrutinio fissato per il 4 luglio.

Il primo elemento notevole è che l’impossibile è diventato possibile. Nessuno avrebbe mai scommesso sulla caduta dei due capi di stato, alla guida di regimi pronti a tutto per garantirsi la sopravvivenza. Eppure la tenacia e l’unità manifestata da due movimenti popolari di dimensioni mai viste hanno stravolto la storia.

Il secondo elemento di rilievo è che le due rivoluzioni sono sorprendentemente nonviolente. Ad Algeri i cortei non sono soltanto pacifici, ma lasciano addirittura le strade pulite dopo il loro passaggio. Venerdì scorso, quando le forze dell’ordine hanno fatto pressione sulla folla, i manifestanti hanno evitato di rispondere per non fornire alcun pretesto per la repressione.

I manifestanti hanno dato prova di estrema intelligenza politica

In Sudan la situazione è ancora più sorprendente. In un paese dove le ribellioni armate sono frequenti, i manifestanti hanno mantenuto un comportamento pacifico nonostante la repressione abbia ormai provocato più di sessanta vittime in quattro mesi.

L’ultimo elemento da sottolineare è che i manifestanti hanno dato prova di estrema intelligenza politica. Ad Algeri hanno già neutralizzato ogni manovra del potere, non accontentandosi della vittoria simbolica di un’uscita di scena di un presidente che non presiedeva più da tempo e rifiutando di lasciare al sistema la possibilità di preparare liberamente la successione.

La stessa maturità è emersa a Khartoum, dove la caduta di Omar al Bashir, presidente processato dai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità e genocidio, non ha messo fine alla mobilitazione, tanto che i sudanesi hanno fatto cadere due presidenti in due giorni e continuano a manifestare chiedendo una transizione accettabile.

Algerini e sudanesi hanno imparato la lezione dei fallimenti della primavera araba. Il rischio di violenze è presente in ogni processo rivoluzionario, ma, senza un leader o un partito di punta, i manifestanti – giovani, istruiti e spesso provenienti dalla classe media – si sono dotati degli strumenti necessari per ottenere risultati migliori di quelli dei loro predecessori.

La sfiducia di questi popoli nei confronti delle persone che li hanno governati è enorme ed evidenzia il momento estremamente delicato dei due processi. Il popolo non vuole permettere agli eredi del regime di gestire la situazione. Per questo mantiene una mobilitazione continua nonostante il rischio di scontri non sia ancora svanito. Anche da questo punto di vista, l’intelligenza politica collettiva di algerini e sudanesi è esemplare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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