Uccidere una donna in Pakistan non è un reato
Era tornata a casa per le vacanze. Asma Rani era una studente di medicina iscritta all’università di Abbottabad. Frequentava il terzo anno, le mancavano solo due anni per laurearsi. Nelle foto sorride verso l’obiettivo, timida ma al tempo stesso sicura di sé e del tutto ignara dell’orrore dei suoi ultimi istanti di vita.
Quegli ultimi istanti, catturati da un video e diffusi sui social media, sono spaventosi. Si vede la giovane e morente Asma Rani, appena colpita da un proiettile, dichiarare il nome del suo assassino, Mujahid Afridi. Lo fa con le ultime forze che le sono rimaste.
Sappiamo che Asma Rani, uccisa perché non ha accettato una proposta di matrimonio, non sarebbe sopravvissuta a lungo dopo il video. La sua vita, come quelle di tante altre ragazze in Pakistan, è finita semplicemente perché non si è inchinata ai desideri di un uomo.
In pochi si soffermano a riflettere sulla responsabilità di una società che crede collettivamente che agli uomini spetti ogni diritto. Il giorno dopo il corpo di Rani giaceva davanti a un assembramento di soli uomini a Lakki Marwat, il suo villaggio d’origine, dopodiché è stata seppellita.
Secondo le notizie pubblicate abitualmente in occasione di reati simili, subito dopo l’omicidio la polizia ha cominciato a compiere delle retate in zona. Queste operazioni però non sono servite a niente. L’aggressore di Asma, Mujahid Afridi, parente di un leader locale del Movimento per la giustizia del Pakistan (Pti), era scappato.
Alcuni abitanti hanno affermato che Afridi è andato nel Golfo, dove ha interessi economici. I poliziotti hanno rivelato che è fuggito in Arabia Saudita. Quando questo articolo è stato scritto non si aveva ancora notizia di tentativi di individuarlo in quel paese né di contatti con le forze di polizia saudite. Se la polizia di solito evita di catturare gli assassini di donne quando si trovano in Pakistan, figuriamoci se proverà ad arrestare quelli fuggiti dal paese.
Le responsabilità sociali
Di fatto, se le condanne rispecchiano convinzioni sociali e verità, uccidere una donna in Pakistan non è un reato. Prima che Asma Rani fosse uccisa con un tale livello di impunità davanti a sua cognata, prima che potesse morire per mano di un uomo convinto di avere il diritto di sposarla e di punirla per il suo rifiuto, altre ne sono state uccise, anche a Kohat, la cittadina dove è avvenuto il reato.
Quasi un anno fa è stata uccisa anche Hina Shahnawaz, che lavorava per una ong e manteneva la madre e la cognata, andata a vivere con loro dopo la morte di suo fratello. Il suo assassino era un cugino, Mehboob Alam che, come Mujahid Afridi, è fuggito subito. Di cosa si lamentava? Del fatto che Hina avesse respinto la sua proposta di matrimonio e che osasse lavorare fuori di casa. Alla fine è stato catturato e condannato, ma è un’eccezione in casi simili. Molti se la cavano impunemente.
Due anni, due omicidi, due donne costrette al silenzio, le loro potenzialità e il loro futuro cancellati da uomini che una società ha educato a credere che le donne non abbiano il diritto di dire di no. Nonostante le radio e i giornali si siano riempiti di sdegno per la morte di una giovane donna innocente, in pochi si sono soffermati a riflettere sulla responsabilità di una società che promuove e crede collettivamente nel diritto tutto al maschile.
Saranno in molti a dare la colpa alla vittima, una ragazza che è andata a studiare fuori città e che ha detto no a un uomo
È proprio quest’ultimo aspetto, il diritto al maschile in base al quale gli uomini del paese sono cresciuti nella convinzione che nessuno, soprattutto una donna, possa mai dir loro di no per nessuna ragione, a incoraggiare ogni atto di criminalità commesso contro le donne e i bambini.
Nonostante l’orribile e agghiacciante natura dell’assassinio di Asma Rani e il video terrificante dei suoi ultimi istanti di vita, non c’è dubbio che saranno in molti a dare la colpa alla vittima: una ragazza che parte per andare a studiare in un’altra città, una ragazza che dice no a un uomo in Pakistan è una ragazza che “se sta andando a cercarsela”, che è colpevole. Asma Rani e Hina Shahnawaz sono state uccise, ma a soffrire sono anche quelle che continuano a vivere, morte viventi di una società che non crede nel loro diritto a scegliere, nel loro diritto di dire di no.
Perciò nel caso di Zainab e Hina e delle tante altre che sono morte o moriranno in futuro non c’è da aspettarsi nessuna giustizia. La polizia farà finta, i politici asseconderanno e niente cambierà. L’assemblea del Khyber Pakhtunkhwa ha già approvato una risoluzione che “condanna l’omicidio”, e qualche altra potrebbe seguire. Ci saranno false promesse e alcuni uomini faranno finta di dispiacersi per tutto questo, l’ultima notizia dal fronte della guerra contro le donne combattuta dal Pakistan. Non accadrà niente di significativo, niente di davvero concreto e niente che abbia davvero la potenzialità di fare giustizia, che punisca i colpevoli in modo esemplare.
Nel Pakistan del 2018 è difficile trovare la speranza che le cose possano cambiare. Nessuna punizione esemplare contro gli assassini di donne, nessun disonore pubblico, nessun messaggio per altri uomini che non possono tollerare le donne che dicono di no. Sono invece sempre e per sempre le donne a pagare per una società in cui non c’è posto per le loro voci o le loro scelte.
Mentre il mondo è attraversato da movimenti che svergognano uomini che sfruttano e molestano e umiliano le donne, il Pakistan continua a ribadire la loro inferiorità in quanto esseri umani e a negare loro dignità. Asma Rani è morta per questo. In qualsiasi altro paese questa sarebbe stata una tragedia; in Pakistan è routine, le cose stanno così e basta, e a deciderlo sono gli uomini.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano pachistano Dawn.