La modernità di Dubai nasconde un lato oscuro
Gli Emirati Arabi Uniti sono il paese che più di tutti ha lavorato per somigliare all’occidente. Il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, domina il lungomare della scintillante città di Dubai, a dimostrazione dello zelo tecnocratico degli emiratini. Le strade sono pulite. Ovunque un asiatico o un nero è pronto a raccogliere l’immondizia buttata per terra. Per chi si vuole divertire ci sono bar e locali dove l’alcol scorre a fiumi come a New York, a Londra o in qualsiasi altro posto che attiri i giovani e i ricchi. Luci sfavillanti brillano in centri commerciali pieni di merci da tutto il mondo: profumi da centinaia di dollari, marchi d’alta moda fieri di non esibire etichette con i prezzi, auto che costano più di una piccola casa nel Midwest statunitense.
Molti sono affascinati dallo sfoggio di modernità che fa Dubai, città ingioiellata nel suo involucro di abbondanza. Si percepisce subito la gioia sui volti dei viaggiatori occidentali mentre vagano tra negozi duty free pieni di dolci, trucchi, orologi e altro. Qui possono giocare, comprare, evadere le tasse e accumulare beni di lusso come mai prima. A Dubai il capitalismo regna sovrano, e sventola davanti agli occhi dei turisti tutti i suoi status symbol, tutte le cianfrusaglie che i loro cuori desiderano. Ci sono negozi Apple, e anche concessionarie Tesla. Se avete portato con voi soldi – come hanno fatto truffatori, ex dittatori e regnanti – potete spenderli in queste cose o investirli nel mercato immobiliare locale.
Il mondo che ancora si culla nell’illusione della democrazia liberale sa che il matrimonio di Dubai con la modernità è una farsa, ma gli Emirati Arabi Uniti continuano ad avere un lasciapassare. Il noto elenco dei peccati di Dubai viene rinnovato con banale regolarità. Uno degli esempi più recenti è un rapporto del centro studi statunitense Carnegie endowment for international peace, che invita i leader di Washington ad affrontare “il problema del ruolo di Dubai nel favorire la corruzione globale”.
Nella città il capitalismo regna sovrano, e sventola davanti agli occhi dei turisti tutti i suoi status symbol
Il rapporto afferma che nella città sono attive varie categorie – dai signori della guerra afgani ai cleptocrati nigeriani, dai mafiosi russi agli europei che riciclano denaro. Queste persone portano soldi dentro e fuori dalle banche locali, felicissime di disinteressarsi all’origine di queste somme. Dubai è “una calamita per il denaro sporco”, si legge nel rapporto, e ha un fiorente mercato dell’oro, con pratiche commerciali opache.
Ma il documento della Carnegie, come altri studi che in passato hanno descritto il lato oscuro di Dubai, non mette in discussione il fatto che gli Emirati siano ormai considerati un simbolo della modernità neoliberista. La sintesi del rapporto contiene un solo cenno al trattamento disumano che Dubai riserva ai lavoratori migranti: “Molti sono trattati come merce, anche attraverso il cosiddetto kafala, un sistema di sfruttamento che condivide alcune caratteristiche con la tratta degli esseri umani”. Ironia della sorte, per un rapporto che cerca di denunciare la corruzione, questo timido riferimento alla condizione di decine di migliaia di lavoratori che vivono un’esistenza da schiavi è già di per sé un insabbiamento. Invece di enfatizzare i tanti abusi generati dal sistema, li normalizza.
Lo studio della Carnegie è solo l’ultima dimostrazione di come il mondo ricco, le Nazioni Unite e il sistema finanziario nato dopo gli accordi di Bretton Woods si siano abituati a distogliere lo sguardo dai crimini compiuti in posti come Dubai. I diktat del neoliberismo, che incoronano l’homo oeconomicus, sono più interessati ai reati finanziari che al benessere delle persone. Ma il più vile tra i peccati commessi da Dubai invece è proprio il ricorso a una schiavitù contemporanea.
La capacità di fingere degli Emirati Arabi Uniti non ha limiti, che si tratti della modernità fittizia oppure del presunto valore dato all’arte o alla cultura
Secondo Nicholas Cooper, autore dell’articolo accademico “City of gold, city of slaves. Slavery and indentured servitude in Dubai” (Città d’oro, città degli schiavi. Schiavitù e servitù a Dubai), la maggior parte degli schiavi è impiegata nel settore edilizio. Il sistema della kafala fa in modo che queste persone rimangano legate al datore di lavoro che le ha fatte arrivare nel paese. Come ho scoperto parlando con alcuni addetti alle pulizie all’aeroporto di Dubai, questi datori di lavoro decidono sullo stipendio: spesso (e soprattutto in questo periodo) non pagano, o saldano solo un mese e saltano quelli successivi. Se i migranti riescono a sfuggire ai loro datori di lavoro e a farsi assumere da un’altra parte (senza un contratto regolare), il loro visto viene considerato automaticamente scaduto. E negli Emirati Arabi Uniti questo significa prendere una multa salata. Per gli immigrati quindi è difficile uscire dallo sfruttamento.
La capacità di fingere degli Emirati Arabi Uniti non conosce limiti, che si tratti della modernità fittizia oppure del presunto valore dato all’arte o alla cultura (Art Dubai, una delle principali fiere d’arte del Medio Oriente, attira ogni anno circa trentamila visitatori). L’altissimo Burj Khalifa e il Louvre nella vicina Abu Dhabi convivono felicemente con una moderna forma di schiavitù, in un luogo il cui ventre oscuro è ricoperto da borse Prada, Ferrari e quant’altro.
Da parte loro, gli Emirati Arabi Uniti sanno quanto sia utile fare un omaggio di facciata ai diritti umani. È anche per questo che la condotta del paese non viene mai davvero messa in discussione. Nel 2014, per esempio, il sito mediorientale Jadaliyya denunciò l’operato di una ong chiamata International gulf organization (Igo). La Igo si presentava come un’organizzazione per i diritti umani che pubblicava studi sugli abusi subiti dai lavoratori migranti, ma in realtà era una macchina per la propaganda. Aveva sede a Ginevra, ma “gestiva una filiale” a Dubai. Della direzione dell’Igo inoltre facevano parte funzionari che erano in rapporti molto amichevoli con i governanti emiratini.
Proprio come le banche di Dubai, che nascondono l’illegalità dietro una facciata di legalità, l’Igo produceva documentari e indagini ma, invece di denunciare le condizioni dei lavoratori migranti e delle persone accusate ingiustamente di terrorismo o le torture a cui sono sottoposte le lavoratrici domestiche, scimmiottavano la propaganda emiratina, lodando i presunti miglioramenti ottenuti dal governo. Uno dei primi documentari dell’Igo cercava di dimostrare l’equità del sistema giudiziario del paese, che manda in carcere presunti terroristi islamisti per quindici anni semplicemente per aver criticato il governo. L’Igo “smentiva” le denunce di tortura e le violazioni dei diritti subite dagli accusati.
L’esempio dell’Igo è significativo, perché rivela quanto sia facile riempirsi la bocca di buoni propositi senza avere nessuna intenzione di seguirli. Se le banche di Dubai permettono transazioni con sistemi illegali, sicuramente le finte ong possono fare lo stesso. Dopotutto, nell’attuale epoca di disincanto liberale e fervore populista, le organizzazioni umanitarie, anche quelle con poteri esecutivi come le Nazioni Unite, sono incapaci di far cambiare rotta ai potenti o di mettere sotto accusa governi che uccidono e schiavizzano i più vulnerabili.
A Dubai c’è un perfetto sfoggio della modernità impreziosito dai segni del neoliberismo. I centri commerciali, i negozi, i duty free, rendono tutti omaggio all’homo oeconomicus. Comprare e vendere sono interpretati come un segno di libertà, intesa come libertà di partecipare a un’attività economica frenetica. L’estetica aggiunge credibilità, con la tanto decantata meraviglia del paesaggio urbano, omaggio ai progressi della tecnologia. Che tutto sia vuoto, che sotto giacciano i corpi dei lavoratori-schiavi costretti a lavorare fino alla morte, che un governo non garantisca ai lavoratori immigrati servizi sociali o prospettiva di cittadinanza non importa a nessuno.
Dubai non è solo un caso di regno opaco e criminale. È una rappresentazione dell’ordine post-liberale, dove il capitalismo pretende profitti e calpesta i deboli e non c’è modo di salvare le persone considerate scarti delle sue transazioni. Dubai, questa necropoli post-liberista, impone la sua crudeltà a centinaia di migliaia di persone. Perché i suoi governanti sanno che i valori dei diritti umani, dell’uguaglianza economica e di genere sono stati ridotti a belle parole da esibire a intervalli regolari attraverso ong di facciata. Il futuro, anche quello dopo Trump, annuncia molte altre Dubai.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati