Il primo anniversario della rivolta contro il regime di Bashar al Assad in Siria spiega perché nel mondo arabo regimi del genere abbiano resistito per decenni, ma anche perché siano condannati al crollo. Oggi, infatti, possiamo osservare con maggiore chiarezza le quattro linee di tendenza della situazione siriana dal marzo del 2011. 1) L’espansione costante dell’insurrezione popolare contro il regime. 2) L’uso sistematico della forza contro i manifestanti pacifici e contro i militanti. 3) Il carattere inefficace dell’opposizione all’estero. 4) Le perplessità del mondo esterno sulla reazione da adottare di fronte a quello che accade in Siria.
Il paradosso delle dittature come quella di Assad è che usare la forza contro i loro popoli gli permette di restare in carica per molti anni, ma in ultima analisi è anche ciò che ne provoca la caduta. Quando le forze armate siriane si schierano per un anno intero contro i loro concittadini, affiancate da miliziani e tiratori scelti, è segno che qualcosa è andato molto male in questo paese che si spacciava per il centro del mondo arabo.
L’interrogativo su chi si sarebbe stancato prima, se i manifestanti o il regime, ha avuto risposta, visto che in queste ultime settimane, per piegare città come Homs e Idlib, è stato necessario un massiccio spiegamento di militari. Realisticamente i manifestanti e le piccole milizie armate che si sono formate in Siria non possono tenere testa agli attacchi dell’esercito: quindi finora le rivolte in varie parti del paese sono state represse nel sangue.
Ma la conseguenza di questa strategia di sopravvivenza, fatta di uccisioni e attacchi contro interi quartieri, sarà la radicalizzazione di decine di migliaia di cittadini siriani che altrimenti sarebbero forse rimasti a guardare. Vedere le loro città sotto assedio, i loro quartieri ridotti in macerie dai bombardamenti e i loro parenti uccisi o torturati ha fatto nascere una nuova generazione di militanti. I siriani che oggi si impegnano per rovesciare Bashar al Assad sono molto più numerosi rispetto a un anno fa, anche se per il momento hanno abbandonato le piazze e perseguono il loro obiettivo con altri mezzi.
L’equazione degli scontri di piazza è sempre stata nettamente favorevole al regime. Gli altri termini dell’equazione delle forze favorevoli e contrarie al regime sono rimasti confusi. Le pressioni diplomatiche esercitate da altri paesi della regione, soprattutto dagli stati arabi e dalla Turchia, hanno isolato il governo di Damasco sul piano diplomatico, senza però provocarne la caduta. Stesse conseguenze hanno avuto le sanzioni economiche e politiche internazionali. I vari gruppi dell’opposizione siriana all’estero hanno suscitato molti titoli di giornale e un intenso dibattito, ma nessuna vera pressione su Assad. L’Esercito siriano libero e altre milizie armate di opposizione hanno un peso simile sul piano militare: combattono ma senza riuscire a cambiare i vertici del potere. Gli organismi multilaterali, soprattutto la Lega araba e le Nazioni Unite, si sono dati molto da fare, ma con pochissimi risultati concreti.
Ora si capisce perché a Damasco è al potere ormai da quarantatré anni un regime del genere: Assad è disposto a usare le forze armate e le risorse economiche del paese per restare al suo posto, senza badare ai costi sul piano interno né a quelli per le relazioni diplomatiche con gli altri paesi. Mentre diminuisce il numero dei suoi alleati diplomatici, militari ed economici, si riducono anche le sue probabilità di uscire dall’angolo in cui si è cacciato: il numero dei gruppi di opposizione credibili disposti a trattare è scarso o nullo, a meno che il negoziato non riguardi l’uscita di scena del dittatore. Passi unilaterali come il referendum indetto di recente e le elezioni che Assad ha annunciato sono inutili. La situazione economica per i siriani si fa ogni giorno più difficile e nei prossimi mesi rischia di diventare il tallone d’Achille del regime.
È difficile capire in che modo Assad e i suoi potranno ricorrere al dialogo e alle riforme per sottrarsi alle pressioni e all’isolamento che subiscono oggi. In questo senso la missione di Kofi Annan si presenta davvero interessante, visto che si basa appunto sulla promozione del dialogo. È possibile che un certo numero di forze di opposizione accetti il dialogo, se lo giudicano il modo migliore per cacciare Bashar al Assad e i suoi familiari, ora che le manifestazioni di piazza sono sospese a causa della repressione. Ma Assad e l’élite che divide con lui il potere non accetteranno un dialogo che punti a metterli fuori gioco.
Fondamentalmente, dunque, la Siria è paralizzata, ma il prezzo di questa situazione aumenta in termini di morti e feriti, di rifugiati e di sfollati, di difficoltà economiche e diplomatiche e di isolamento del regime. È una situazione che probabilmente proseguirà ancora per mesi, finché uno dei punti deboli dell’equazione cederà. E questo è destinato inevitabilmente ad avvenire entro l’anno.
*Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 941, 23 marzo 2012*
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