Cosa imparo dalle giovani femministe
Questo articolo è stato pubblicato il 6 marzo 2020 nel numero 1348 di Internazionale.
Invecchiando diventi un immigrato di un paese scomparso, un paese che sopravvive ancora nella memoria di qualche tuo coetaneo ma che per i giovani è inimmaginabile, se non incomprensibile. Potremmo chiamarlo “la terra del prima”: prima di qualche grande cambiamento, prima che cominciassimo a fare le cose in un certo modo, prima che decidessimo cosa è inaccettabile, prima che scoprissimo qualcosa di nuovo a proposito di un vecchio problema. Sono stata plasmata da un mondo che non esiste più. Non riesco a immaginarmi a diciott’anni nel mondo di oggi, perché per farlo dovrei immaginare una persona completamente diversa. Quella persona non esiste, invece io, come tutti, esisto come effetto cumulativo delle mie esperienze, delle mie opportunità o della loro mancanza e dei miei ideali.
Gran parte di ciò che mi ha formata e segnata da ragazza, rendendomi prima una femminista solitaria e poi una femminista tra le tante, riguarda l’indicibile violenza contro le donne, con il suo corollario di denigrazione, molestie e costrizione al silenzio. Era un’epidemia, eppure ogni episodio veniva trattato come un fatto isolato. Nessuno collegava i crimini alla cultura che considerava la violenza contro le donne come una forma di intrattenimento, negando che la sua esistenza avesse un qualche significato, facendo in modo che la prevenzione e la giustizia fossero tanto deboli quanto rare. Quelle forze esistono ancora, ma sono state affiancate da qualcos’altro: un dibattito potente che ha il coraggio di fare i nomi, che parla chiaramente, che rifiuta le scuse, le coperture, le giustificazioni.
Per me questo dibattito è entusiasmante. Ma è anche un paradosso, perché ho trascorso gran parte dell’ultimo decennio leggendo storie raccapriccianti di stupri, torture, omicidi, persecuzioni e violenza domestica raccontate direttamente dalle sopravvissute. Sono entusiasta davanti al cambiamento, anche se non è sufficiente, e sono stremata dall’immersione nella violenza (soprattutto maschile) e nell’annientamento (soprattutto femminile). Almeno, però, abbiamo individuato il problema.
La versione diciottenne di me oggi non esiste, ma esistono molte diciottenni che mi dimostrano quanto le cose siano cambiate e attraverso la loro splendida insubordinazione e le loro ambizioni sconfinate creano la promessa di ulteriori cambiamenti. L’anno scorso una ragazza che conosco ha pubblicato un saggio in cui raccontava l’odissea notturna vissuta accompagnando un’amica in ospedale a procurarsi un kit per la raccolta delle prove in caso di stupro. Sono rimasta estremamente sorpresa da quanto nella sua visione del mondo fossero scontate verità e prese di posizione per le quali molte di noi hanno lottato. La ragazza aveva tra le mani questo nuovo strumento e sembrava non aver mai avuto i dubbi che insidiano la capacità delle persone di riconoscere ciò che è appena accaduto: quella voce che ti dice “stai esagerando”, un altro modo per dire “stai avendo le sensazioni sbagliate”, un altro modo per dire “le tue sensazioni creano problemi agli altri, quindi stroncale sul nascere”.
Diversi decenni fa mi capitò di scoprire un aforisma che recita più o meno così: “Ricorda il rispetto dovuto ai giovani”. Uno dei miti nocivi della nostra epoca è quello secondo cui la saggezza si accumula con l’età, in modo costante e regolare, come i cerchi nei tronchi degli alberi. Secondo questo modo di pensare, gli anziani hanno la saggezza che ai giovani manca, quindi i giovani dovrebbero aprire il loro piccolo becco e aspettare che un verme di saggezza gli sia lasciato cadere in gola. In quest’ottica la saggezza è il risultato di uno sviluppo individuale e non del modo in cui noi, in quanto società, diventiamo più capaci di vedere qualcosa e di capirne il funzionamento. Penso che queste conversazioni sulle divisioni generazionali siano fuori tema e rappresentino il classico tentativo di dipingere il femminismo come una disputa tra donne di diverse generazioni: alla gente piace vedere le donne litigare. Questa cultura non conosce altro modo di raccontare una storia se non quello di mettere un gruppo contro l’altro, in una sorta di dramma bellico di egoismo e privazione.
Personalmente sono grata alle femministe più giovani e le ammiro. Imparo molto da loro, non una singola grande verità, ma una serie d’intuizioni che gradualmente hanno modificato il mio modo di pensare e mi hanno dato nuovi strumenti da utilizzare. In molte giovani donne – dalla ragazza che accompagnava l’amica in ospedale fino alle bambine della mia famiglia – vedo chiarezza e fiducia nei loro diritti, nelle loro necessità e nelle loro verità, una chiarezza che mi sembra nuova, diversa. Forse la vecchia generazione ha piantato i semi, ma queste ragazze sono lo splendido raccolto. Sono la vittoria.
Le ragazze guidano questo risveglio collettivo dimostrandosi più esigenti e meno disposte ad accontentarsi o a credere che qualcosa sia impossibile. In effetti i quasi sessant’anni che ho vissuto su questa terra mi hanno insegnato che ogni tanto le cose considerate impossibili dallo status quo si realizzano. Ricordo che vent’anni fa sembrava impossibile abbandonare i combustibili fossili, perché l’energia solare e quella eolica erano tanto costose quanto inadeguate. Ricordo anche il 1992, quando la presenza di un totale di sei donne al senato degli Stati Uniti (inclusa la prima senatrice nera) fu salutata come un trionfo femminile, perché non erano mai state così tante. Oggi le senatrici sono venticinque.
Il femminismo fa parte di una gigantesca avventura in corso nei sette continenti (e in un paio di stazioni spaziali) per cambiare il modo in cui pensiamo al genere, ai diritti, all’uguaglianza, al consenso, alla voce, e per creare un dibattito aperto alla partecipazione di chi si è sentito escluso, messo a tacere. È un dibattito sull’idea di razza, il genere, le preferenze sessuali, i diritti delle persone transessuali, i diritti dei disabili, la libertà di culto, la neurodiversità e molto altro, oltre che sul modo in cui questi elementi possono intrecciarsi in una singola persona o in una singola esperienza.
Tutti i partecipanti a questo dibattito imparano dagli altri a osservare con più attenzione, a guardare oltre, a fare nuove domande, a usare nuovi termini che creano nuove possibilità. È come se vagassimo nella notte, ognuno con la sua piccola luce, e a volte riuscissimo a indirizzare tutte le luci verso lo stesso problema, fino a quando possiamo vederlo chiaramente e poi scambiarci le descrizioni, disegnare mappe, migliorare la messa a fuoco e dare vita a qualcosa di nuovo. O diventare qualcosa di nuovo.
Ci sono stati momenti letteralmente corali, come quando un grande numero di femministe ha usato lo stesso hashtag. Nel 2014, per esempio, una giovane musulmana ha lanciato #yesallwomen (sì, tutte le donne) per rispondere alla vergognosa reazione maschile al massacro di Isla Vista, quando un uomo di 22 anni aveva ucciso sei donne vicino al campus dell’università della California a Santa Barbara. La giovane musulmana aveva voluto opporsi all’uso dell’hashtag #notallmen (non tutti gli uomini) con cui alcuni avevano voluto spostare l’attenzione, scagionando gli uomini invece di riconoscere la gravità della minaccia per tutte le donne.
Più numerose dei momenti corali sono le conversazioni. La frase semplicissima “la colpa degli stupri è degli stupratori” (forse coniata dal sito Feministing nel 2010, o magari presa in prestito da qualcun altro) ci ha regalato uno strumento e una nuova prospettiva per opporci a chi cerca di colpevolizzare la vittima sottolineando il modo in cui era vestita, cosa aveva bevuto e tutti gli errori che aveva fatto invece di chiudersi nel caveau di una banca vestita da suora con una pistola in mano.
Per questo ammiro le giovani. Mi sembra giusto dirlo, soprattutto in un momento in cui le lamentele dei sessantenni nei confronti dei millennial hanno molto spazio e così tante donne più anziane sono talmente immerse nel loro tentativo di sopravvivere al patriarcato che non riescono a uscire dal meccanismo del “non è così male/devi essere forte” e a riconoscere che sì, tutto questo fa schifo, ha profonde conseguenze e soprattutto è sbagliato. Di recente la storica britannica Mary Beard, venuta al mondo durante l’ultimo mandato di Winston Churchill, ha scritto qualcosa a proposito di questo continente perduto del silenzio: “Uno dei motivi per cui i miei studenti del nuovo millennio s’inquietano leggendo le Metamorfosi di Ovidio o i primi libri di Tito Livio è che hanno un’idea molto più chiara della natura di quelle opere. Cinquant’anni fa non riconoscevamo (né tantomeno c’insegnavano a farlo) che le Metamorfosi è un poema basato sullo stupro. All’epoca pensavamo parlasse di una serie di ‘sopraffazioni’, con un inquietante e implicito riferimento al piacere sessuale. La trasformazione delle vittime in alberi e quant’altro era solo l’ennesima stranezza della mitologia antica”.
Condivido l’entusiasmo di Beard per la percezione più acuta della nuova generazione. In uno splendido articolo pubblicato nel 2018 dal New Yorker, la femminista millennial Jia Tolentino rilegge Ovidio alla luce della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla corte suprema degli Stati Uniti, ammettendo di provare “un vergognoso e crescente desiderio di smettere di correre, di trovare un modo per essere impassibile e serena” come le donne trasformate in alberi e laghi. Se le lettrici più giovani come Tolentino e le studentesse di Beard sono capaci di riconoscere la forte presenza dello stupro nelle Metamorfosi è grazie al lavoro delle lettrici, delle scrittrici e delle dissidenti che le hanno precedute. Non so se siamo davvero sulle spalle dei giganti, ma di sicuro calpestiamo il terriccio in cui sono stati piantati alcuni semi che ora stanno germogliando o sbocciando.
In passato c’erano tante cose di cui non potevamo parlare, e ancora oggi non ne abbiamo affrontato a sufficienza alcune. Di recente ho scritto un libro su questi argomenti, Ricordi della mia non-esistenza (Granta 2020), in cui parlo del mutismo dei miei anni formativi. All’epoca niente di ciò che dicevo trasmetteva il mio “no” agli uomini che mi molestavano e mi minacciavano. Niente di ciò che facevo serviva a fermarli, e avevo la sensazione che se mi fossi ribellata avrei solo peggiorato le cose. Il mio primo desiderio era avere qualcuno che urlasse con me, per dire che tutto era completamente sbagliato. Volevo qualcuno che insieme a me domandasse come avremmo potuto cambiare tutto, e spiegasse perché dovevamo farlo.
Le mie esperienze passate sono comuni ancora oggi. L’estate scorsa la figlia adolescente di alcuni amici è stata minacciata di morte da un uomo dopo aver reagito alle sue molestie. È il genere di cose che mi capitava di continuo quando ero una ragazza. Episodi ordinari, innumerevoli. Negli ultimi anni è stato portato avanti uno straordinario processo di esumazione e reinvenzione collettiva delle esperienze delle donne, in cui le più anziane hanno imparato dalle più giovani e viceversa.
Penso che la nostra conversazione sia lontana dalla fine, ma è bello che sia cominciata. Alla gente convinta che il femminismo abbia fallito mi piace ricordare il mondo in cui sono nata, lo stesso che riempiva mia madre di furia repressa, lo stesso in cui le donne, per usi e per leggi, erano profondamente discriminate. Le leggi sul matrimonio negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri paesi definivano le mogli come una sorta di proprietà, beni mobili, animali domestici. I mariti avevano il diritto di picchiare e violentare i loro corpi, oltre che di controllare le loro scelte, dalla sfera finanziaria a quella medica. Le donne erano escluse da quasi tutte le posizioni di potere in campo economico, legale, sociale, formativo e politico. Non esisteva nemmeno un linguaggio per descrivere le molestie sul posto di lavoro come un atto grave e illecito. Potrei andare avanti, ma preferisco fermarmi. Prima però lasciatemi ricordare quanto fosse abituale la denigrazione delle donne, considerate come creature mutevoli, inaffidabili e di conseguenza private della possibilità di partecipare e perfino di obiettare. Non che tutto questo sia sparito, ma almeno ne stiamo parlando da mezzo secolo.
Per sottolineare tali forme di oppressione è servito un grande progetto collettivo. Nel 1963, in un libro che ha avuto un’influenza straordinaria, La mistica della femminilità, Betty Friedan parla del “problema che non ha nome”. Da allora abbiamo trovato un nome al problema, passo dopo passo, risuscitando vecchie espressioni come patriarcato e manipolazione psicologica ma anche creandone di nuove come marginalizzazione, mansplaining (che, per inciso, non ho inventato io), cultura dello stupro, colpevolizzazione della vittima e stigma della puttana.
L’elemento meraviglioso e sorprendente degli ultimi anni è stata la nostra spedizione collettiva per esplorare le nostre vite, per alzare il volume delle voci che erano state messe a tacere e per abbassare un po’ quello delle persone che vengono sempre ascoltate. Abbiamo creato una nuova mappa di ciò che siamo state, siamo e potremmo essere per parlare con una voce sola. Far parte di questa conversazione globale è stata una gioia e un onore; ascoltare le altre mi ha insegnato molto e mi ha ispirata. E l’unica cosa di cui sono assolutamente sicura è che siamo solo all’inizio.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato il 6 marzo 2020 nel numero 1348 di Internazionale.