Un papa che parla più di Gesù e di Vangelo che di chiesa, più di gioia, compassione e misericordia che di legge e valori non negoziabili, più di uscire e servire che di difendere e proclamare. Davvero, pochi della mia generazione ormai osavano sperare che la primavera del Concilio vaticano II sarebbe tornata.
Ma in Africa i cambiamenti promossi da papa Francesco non sono ancora arrivati. Dopotutto non abbiamo le stesse stagioni dell’Europa, e Bergoglio pubblicamente ha interagito ben poco con l’Africa, a parte i necessari appelli alla pace e qualche parola durante le visite ad limina delle conferenze episcopali africane. Durante il suo primo viaggio pastorale, a Lampedusa, lo abbiamo visto incontrarsi con africani appena sbarcati dalla costa libica. Lui era di fronte a un mondo nuovo, che non aveva mai incontrato faccia a faccia, e i profughi, in maggioranza musulmani, sì e no sapevano chi fosse il papa, tanto meno papa Francesco.
Ci sono stati altri viaggi, le prime nomine cardinalizie nel febbraio del 2014, e tra i nuovi 16 cardinali elettori c’erano due arcivescovi dell’Africa occidentale: Jean-Pierre Kutwa, di Abidjan, e il poco conosciuto Philippe Ouédraogo, di Ouagadougou, da famiglia in maggioranza musulmana, che si autodefinisce piccolo pastore della savana burkinabé. Ma a confronto con le altre nomine non costituivano una gran novità e non hanno generato grande interesse.
Nel frattempo non ci sono state nomine di africani a cariche importanti a Roma. Anche questo significa poco, perché Francesco non esprime la sua considerazione per un pastore portandolo a lavorare in Vaticano. In ogni caso l’Africa è scomparsa degli orizzonti della chiesa, mentre sono emerse con forza, ovviamente, l’America Latina e successivamente l’Asia. L’anno scorso si era parlato di una visita papale in Camerun, ipotesi che era stata suffragata da un’udienza concessa a Paul Biya, il suo presidente cattolico (ahimé per i cattolici) e figlio di catechisti. Ma qualcosa non deve aver convinto papa Francesco, probabilmente proprio il fatto che in Camerun ci sia un rapporto non del tutto chiaro tra chiesa e politica. E di visitare questo paese non si è più parlato. Chi è attento alle cose africane poi non ha mancato di notare che nel corso della prima fase del sinodo sulla famiglia, il cardinal Kasper in un’intervista ebbe una frase infelice che lasciava intravedere un giudizio molto pesante su tutto l’episcopato africano, e nessuno ritenne necessaria una puntualizzazione.
Nel secondo concistoro, celebrato nel febbraio di quest’anno, i nuovi cardinali africani elettori sono due: Berhaneyesus Souraphiel, arcieparca di Addis Abeba, e Arlindo Furtado, vescovo di Santiago di Capo Verde. Due pastori di diocesi con un piccolo numero di cattolici, periferici in tutti i sensi, ma periferici anche rispetto all’Africa nera, l’Africa della grande esplosione numerica del secolo scorso, mai vista in precedenza nella storia della chiesa. Quell’Africa che con quasi duecento milioni di fedeli in rapida crescita costituisce ormai il 17 per cento della cattolicità, e che, non dimentichiamolo, alla vigilia degli ultimi due conclavi si sentiva autorizzata a reclamare che fosse venuto il tempo di un papa africano.
La chiesa africana è assente dall’agenda di papa Francesco? Eppure in Africa molti si aspettano una sua visita. Lo scorso 26 novembre ho accompagnato un gruppo di miei ex ragazzi di strada keniani a incontrarlo dopo l’udienza generale. Sono rimasti conquistati da Francesco anche solo per i pochi istanti in cui ha detto qualche parola e hanno sentito una carezza della sua mano. Ma poi la domanda insistente era: ma quando viene in Africa? Quando viene da noi a Kibera? Non pochi altri se lo domandano in Africa.
Sappiamo che Bergoglio prima dell’elezione aveva limitato i suoi viaggi a quelli che doveva fare come pastore, e non ha mai visitato l’Africa, neanche come turista. Non era nel suo stile austero. Quindi si trova di fronte a una realtà che conosce poco, e vuole prendersi il tempo necessario per ascoltarla e capirla. Poi è venuto l’annuncio informale, sul volo che lo portava da Manila a Roma il 19 gennaio, di una probabile visita nella Repubblica Centrafricana e in Uganda entro la fine del 2015.
Perché questi due paesi?
Andare nella Repubblica Centrafricana, se pure sarà possibile per l’enorme rischio sicurezza, significa immergersi in tutte le debolezze dell’Africa. Innanzitutto per la guerra, e le violenze sulla popolazione civile. Poi, perché è un paese con grandi ricchezze naturali che non è mai stato veramente indipendente, conteso tra multinazionali, sotto la minaccia del fondamentalismo islamico, dove tribalismo e rivalità religiose sono esplose negli ultimi tre anni.
Un paese dove la chiesa è sfidata dalla necessità di dialogare, e di dialogare da una posizione di debolezza. Un paese dove la mondanità del clero, per usare un termine bergogliano, in contrasto con la povertà generalizzata, aveva raggiunto livelli che hanno costretto nel 2009 all’intervento di Roma. Le relazioni dei vescovi locali alla Santa Sede avevano per anni tenuto nascosta una situazione di corruzione di una buona parte del clero, avido di potere e di soldi, a cui i vescovi non sapevano più come reagire, o a cui avevano scelto di aderire. Ci vollero un nunzio vietnamita e poi un nunzio nigeriano e un visitatore apostolico, l’allora segretario della congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, monsignor Robert Sarah, guineano, oggi cardinale prefetto della congregazione per il culto divino, per rimuovere il problema, decapitando così anche alcune diocesi. Da come abbiamo imparato a conoscere papa Francesco, che ama andare alla radice dei problemi, non è certamente un caso che abbia scelto questo paese come meta del suo primo viaggio africano.
In quanto a essere snodo di problemi geopolitici, l’Uganda non ha meno possibilità di rappresentare i problemi africani e le periferie del mondo, con un presidente al potere da 29 anni che interferisce pesantemente, anche manu militari, nei paesi vicini, e con i suoi popoli nomadi del nord ancora tagliati fuori dallo sviluppo, sia pur disuguale, del resto del paese. Ma forse a Francesco interessa di più per un’altra rappresentatività, cioè quella dell’impegno laicale. Con i suoi 22 martiri della fine dell’ottocento, e i beati catechisti Daudi e Jildo del 1918, questo paese ha donato alla chiesa africana il numero più alto di canonizzati nei tempi moderni. Con una particolarità: contrariamente a quanto è successo nel resto del mondo, tra i santi e i beati africani dei tempi moderni ci sono solo due suore, e non c’è nessun prete (a parte il beato nigeriano Cyprian Tansi, che però ha vissuto nel Regno Unito). Vorrà Francesco fare dell’impegno laicale per la giustizia e la pace il tema dominante della sua tappa in Uganda?
Allora il ritardo di Francesco nel guardare all’Africa si spiega con il desiderio di ascoltarla e capirla, prima di aiutarla a riprendere il cammino. Centrafrica e Uganda sono due paesi che daranno a Francesco l’occasione per parlare di problemi veri, dei poveri e della chiesa e dei suoi pastori. Su tutto domineranno i temi della pace e del dialogo con l’islam, temi globali che hanno però risonanze drammatiche in Africa.
Per troppo tempo i problemi dell’Africa sono stati nascosti sotto il tappeto. Si era arrivati al primo sinodo africano nel 1994 con tante speranze, ma poi mancò la parresia, la franchezza nell’esprimersi, su cui oggi Francesco tanto insiste. Così il sinodo riconobbe formalmente l’idea di inculturazione, cioè del necessario dialogo tra Vangelo e diverse culture locali per un reciproco arricchimento, ma ai teologi che vi avevano lavorato non fu permesso di partecipare e poi furono progressivamente messi a tacere.
Oggi di inculturazione non si parla più, e ancor meno la si fa e la si vive. Quel sinodo enfatizzò la necessità dell’impegno dei cristiani per la giustizia sociale. Son stati fatti pochi progressi. In troppi paesi africani i leader religiosi sono assenti dal dibattito pubblico, e accettano passivamente un’agenda sociale profondamente ingiusta. Si adagiano in una commistione tra potere politico e servizio pastorale tutta a loro svantaggio, in cui uomini politici prendono la parola nelle chiese e nei servizi religiosi, facendoli apparire alleati del potere. Recentemente un amico africano mi faceva notare come, durante l’insediamento di un vescovo nella sua nuova diocesi, la classe politica locale abbia partecipato in massa dando l’impressione alla comunità che si trattasse dell’insediamento di un funzionario governativo. E questo succede in troppi paesi.
Abbiamo decantato per anni la giovinezza e freschezza della fede e della chiesa africana. Ma se questo resta vero per la gente semplice, alla periferia del potere, la chiesa dei pastori rischia di invecchiare precocemente e di gestire il servizio dell’autorità con modi che sono diventati vecchi e inaccettabili nei paesi da cui sono partiti i missionari che hanno evangelizzato l’Africa negli ultimi due secoli.
L’Africa non è solo geografia. Per la geografia è solo un continente dall’altra parte di un mare, neanche tanto grande. Ma la cultura e l’etica africane sono radicate in terreni molto più lontani di quelli geografici. Perché la chiesa metta radici profonde in Africa forse dovrebbe ripartire dalle profondità del cuore, là dove gli uomini si incontrano tra loro e dove incontrano Gesù.
Papa Francesco con la sua capacità di limpida testimonianza, sincerità, parresia e, più ancora, la sua vicinanza ed empatia con i poveri, può offrire alla chiesa africana uno stimolo straordinario per ripartire dal cuore.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it