I mercati non si sono spaventati per la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti ma temono come la peste il fatto che in Italia la costituzione resti così com’è. Questa è la situazione, stando ai commenti, alle previsioni, alle analisi autorevoli sui mezzi d’informazione, alle voci sui mercati e anche al senso comune di tanti risparmiatori in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Se vince il no – l’ha scritto fuori dai denti il seguitissimo Wolfgang Munchau sul Financial Times, e in modo più blando il Wall Street Journal – si apre la giostra, parte un processo che può portare alla caduta del governo Renzi e, essendo l’Italia l’anello debole di una catena dell’euro già sgangherata, tutto può succedere.
Tanto più se nello stesso giorno sale al governo in Austria la destra nazionalista di Norbert Hofer, tanto più in vista di un’avanzata lepenista in Francia, tanto più dopo Trump…
Anche se questa storia ancora da fare è piena di se, messi tutti in fila fanno uno scenario impressionante. C’è da correre a chiudere tutti i dibattiti e le bacheche, dichiarare l’emergenza nazionale finanziaria e imbucare subito la scheda per il sì. A prescindere, direbbe Totò. E molti lo faranno, è il tam tam di queste ore tra chi ha qualche soldo da parte – ci sono poi i tanti che non li hanno, e che restano inosservati.
Populismi e post-verità
Se non fosse che in tutto questo scenario c’è un eterno ritorno storico che non convince; una falla logica, prima che democratica; e un pericolo che si autocostruisce e autoalimenta, portando dritto dritto verso la vittoria del magmatico fronte che prima era definito populista e adesso è più di moda chiamare “della post-verità”.
L’eterno ritorno è una tradizione tutta italiana. Ed è nella antichissima trovata di farsi dettare la disciplina dall’esterno, non essendo capaci di darsela. Ci pensò per primo Guido Carli con le lettere del Fondo monetario internazionale, ne ha goduto per ultimo Mario Monti dopo l’estate dello spread, nel 2011, quando si cambiò governo per voto dei collegi borsistici e non elettorali.
Ma da allora molte cose sono cambiate. “Ce lo chiede l’Europa”, o “ce lo chiedono i mercati”, sono diventati argomenti impopolari e controproducenti. Lo ha capito benissimo, da abile politico qual è, lo stesso Matteo Renzi, che anzi sta facendo di tutto per smarcarsi dall’odiata tecnocrazia di Bruxelles. In questa campagna elettorale si appunta al petto come una medaglietta ogni rimbrotto di Juncker o di Merkel. Certo, la paura dei mercati è un po’ diversa da quella della Commissione europea, però nel sentimento popolare rischiano di confondersi.
La speculazione si adatta, ora scommette sull’instabilità, poi scommetterà sulla prossima puntata
Dunque, solo una volta – e un po’ imprudentemente – Renzi ha agitato l’argomento “se perdo sale lo spread”. Certo, è vero che se Renzi viene sconfitto il suo governo ne risulta indebolito, ma non è automatico che cada, e se cade non è automatico che si vada a votare subito, anzi. Potrebbe verificarsi proprio quello scenario che i mercati sommamente auspicano: una nuova unità nazionale, stavolta “tecnica”.
Una riedizione del loden di Monti, ma stavolta del tutto fuori stagione. Per questo usare “i mercati” a favore di questo o quel voto ha in sé una falla logica: la speculazione si adatta agli scenari. Per adesso scommette sull’instabilità, dopo che questa si sarà creata scommetterà sulla prossima puntata.
In teoria, una vittoria dei sì potrebbe essere altrettanto preoccupante per la traballante Unione europea, visto che la nuova costituzione e il sistema elettorale previsto per ora, ossia l’Italicum, potrebbero portare a un nuovo governo molto più forte, dopo le prossime elezioni, ma forse molto meno europeista o eurista.
Il rischio delle pre-verità
Prima o poi si dovrà votare. E anzi, invece di evocare spettri confusi, sarebbe bene avere finalmente una campagna elettorale in cui questo argomento – chiudersi dentro le frontiere e tornare alla vecchia lira – è esplicitato e dibattuto, si portano i conti dei pro e dei contro, si fa la lista di chi vince e chi perde (e si scoprirà magari che tanti tra coloro che perdono stanno dentro quel popolo che, ignorato dalla sinistra, si è affidato a stelle e felpe), si guarda all’economia reale – e ai suoi numeri terrificanti sulla produttività, che come ha scritto lo stesso Munchau fanno la vera debolezza dell’Italia – e finalmente si decide.
Insomma, nell’era battezzata della post-verità, quelle dei mercati, e dei loro analisti, sono delle preverità. Fatti che ancora devono accadere, o meglio, scommesse su questi fatti. Giova ricordare che i mercati non votano ma scommettono. E già in passato si è fatto spesso l’errore tragico di rinviare il voto per paura dei mercati (il caso Monti, appunto), o di evocare questo o quel risultato come spauracchio per il risparmio, a volte in modo farsesco (memorabile una frase del secolo scorso di Alessandra Mussolini rivolta al candidato sindaco di Napoli: “Bassolì, hai fatto crolla’ la lira”).
Dopodiché, ci si accorge che la Spagna è da quasi un anno nell’instabilità più totale e lo spread tra i bonos e i bund tedeschi è migliore del nostro; e che l’arrivo delle mani di Trump sulla valigetta nucleare invece di causare il panico fa brindare Wall street. Perché i mercati si adattano alla realtà, cioè a noi. Siamo noi che non dobbiamo adattarci a loro.
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