Per tutelare davvero il risparmio, lo stato non dovrebbe “dare alcuna garanzia, neppure morale, a pro di private imprese. Ogni banca, ogni industria, deve correre le alee inerenti alla sua vita. Se lo stato garantisse le private iniziative contro le perdite, quale spaventevole abisso si spalancherebbe dinanzi al paese!”.

Queste antiche parole di Luigi Einaudi sono state ricordate dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in un breve testo che lui ha scritto come postfazione a La difficile arte del banchiere (Laterza, 2016). Titolo profetico, nel pieno della grave crisi del Monte dei Paschi di Siena, che va a precipitare in queste ore con la richiesta della Bce di portare a 8,8 miliardi di euro l’ammontare dell’intervento pubblico per il salvataggio della banca.

Secondo la lezione del liberale Einaudi, omaggiato in quello scritto, non si dovrebbe spendere neanche un euro per salvare Mps. Eppure lo si fa, perché, spiega Visco, lo stesso padre del liberalismo italiano ammetterebbe l’eccezione, quando una banca è ancora solvibile, si può salvare e si tratta di scongiurare l’effetto catastrofico di una crisi di liquidità. E oggi, prosegue il governatore, “il contesto in cui operano le banche è profondamente mutato. Basti solo rammentare che una crisi di panico non si esprime tanto attraverso le file di clienti ansiosi agli sportelli delle loro banche quanto con il collasso della fiducia nei mercati interbancari fittamente interconnessi su scala mondiale e con il conseguente rapido prosciugamento della liquidità”.

Lo scritto risale al maggio 2016, ma è stato pubblicato sul sito della Banca d’Italia il 20 dicembre. Quando, a stare a quel che sappiamo ora, la crisi di liquidità del Montepaschi si stava già manifestando e stava portando a quella correzione clamorosa dell’entità del salvataggio. Che, secondo quanto fa sapere il dicastero guidato da Piercarlo Padoan, non preoccupa il governo. Ma che suscita qualche interrogativo su quel che è successo nelle ultime settimane.

Le puntate precedenti
Ricordiamo infatti che già all’inizio dell’estate, con la pubblicazione degli stress test, era stata conclamata la crisi del Montepaschi. E alla fine dell’estate il governo, che era diventato un azionista di riferimento della banca senese attraverso la conversione in azioni dei bond pubblici da questa sottoscritti, aveva scelto la sua strada per “salvare” la banca: non un intervento pubblico, ma un aumento di capitale affidato al mercato, attraverso una complessa operazione guidata dalla banca d’affari americana Jp Morgan, coadiuvata da Mediobanca.

Per battere questa strada, il governo aveva licenziato il precedente vertice e di fatto svolto la regia dell’operazione. Benedetta, secondo notizie di stampa non smentite, in un pranzo tra l’allora primo ministro Matteo Renzi e il capo di Jp Morgan Jamie Dimon. Un’operazione complessa, che prevedeva anche lo scorporo e la cartolarizzazione (cioè, la trasformazione in titoli cartacei, messi in un veicolo separato dai conti della banca) dei crediti inesigibili della banca stessa.

Dopo il referendum, le dimissioni di Renzi e la conferma dello stesso ministro dell’economia le cose non si sono sbloccate per il Montepaschi

“Ripulito” dalla spazzatura, il Monte dei Paschi poteva stare sul mercato e chiedere capitali, sia ai privati, che già possedevano obbligazioni, sia ai soci “grossi”, che dovevano mettere la fetta maggiore. In tutto, si trattava di trovare cinque miliardi, un ammontare approvato e certificato dalla stessa Bce. Peccato che le adesioni del pubblico sono arrivate con il contagocce, mentre il socio importante, che si vociferava essere l’emiro del Qatar, è rimasto alla finestra.

Tutto questo è successo nei giorni in cui l’Italia dibatteva sul referendum e qualcuno attribuiva l’attendismo di risparmiatori grandi e piccoli all’incertezza del quadro politico. Dopo il referendum, le dimissioni di Renzi, l’arrivo di un nuovo presidente del consiglio e la conferma dello stesso ministro dell’economia, le cose non si sono sbloccate per il Montepaschi: e il 22 dicembre il vertice della banca ha certificato che l’operazione di aumento di capitale “non si è chiusa con successo”.

Nelle stesse ore, il governo si faceva autorizzare dal parlamento a stanziare 20 miliardi per interventi nel sistema bancario: il Monte dei Paschi, era noto, sarebbe stato il primo della lista. Solo che allora si pensava che “bastassero” 5 miliardi, adesso la Bce fa sapere che ne servono 8,8.

Il “rapido deterioramento”
Cos’è successo per far lievitare il conto in modo così consistente? Partiamo dalle parole usate dalla stessa vigilanza della Bce, che sono state pubblicate – funziona così, purtroppo, la trasparenza delle istituzioni monetarie europee – solo sul sito della stessa banca vigilata, il Monte dei Paschi. “La posizione di liquidità della Banca ha subìto un rapido deterioramento tra il 30 novembre 2016 e il 21 dicembre 2016”, ha scritto la Bce nella lettera al ministero dell’economia nella quale considera che la banca “è tuttora solvente” (requisito essenziale per eccedere al programma di “ricapitalizzazione preventiva”, insomma per ammettere il salvataggio di stato) ma quantifica in 8,8 miliardi l’ammontare di capitale necessario.

In ventun giorni la banca ha assistito a una crisi di liquidità: gente che ha chiuso i conti correnti (per 6 miliardi di euro, sostiene questo articolo de Linkiesta); ma anche – se seguiamo le parole di Visco citate all’inizio sul modo in cui si diffondono oggi le crisi di panico – prestiti interbancari che si sono rarefatti. A cosa si deve questo “rapido deterioramento”?

Tra le due date messe in fila dal comunicato, il 30 novembre, cioè all’indomani del precedente via libera della Bce al piano da cinque miliardi, e il 21 dicembre, alla vigilia della certificazione del fallimento del piano stesso, c’è un’altra data che in Italia ricordiamo bene: il 4 dicembre, giorno del referendum costituzionale.

Il suo esito ha segnato l’uscita di scena di Matteo Renzi, principale sponsor dell’operazione “di mercato” senese, e preannunciato la soluzione alternativa, la nazionalizzazione. Resta non spiegabile, anche alla luce del “deterioramento” di cui parla la Bce e del quale i vertici della banca dovevano già essere al corrente, il fatto che proprio in quei giorni il Monte dei Paschi abbia chiesto alla Bce una proroga del tempo utile per cercare capitali sul mercato, una richiesta respinta da Francoforte.

La politica
Si potrebbe dire che, se un’operazione ha senso economico, ce l’ha anche se cambia il presidente del consiglio. Questo vale per il piccolo risparmiatore come per l’emiro del Qatar. Forse allora quell’operazione non aveva molte possibilità neanche prima ed era stata tenuta in piedi dalla pervicace volontà del governo di non affrontare i problemi di una nazionalizzazione in piena campagna referendaria.

Oppure che la trattativa con l’emiro – o altri – andava condotta da un governo forte, nel pieno dei suoi poteri, in stanze riservatissime. O che l’amministratore delegato di Montepaschi Marco Morelli (al quale, fa notare Federico Fubini sul Corriere, è stato accordato un compenso di 1,4 milioni l’anno, tanto quanto guadagna il capo della più grande banca d’Europa) non è stato molto abile nelle trattative.

Tutto questo ci dice anche che la politica nazionale è sempre stata parte del problema e della soluzione

In ogni caso, oggi risulta evidente che aver lasciato aperta una partita così importante non è stata una grande prova di responsabilità da parte di Matteo Renzi. Si potrebbe dire che aver lasciato che la questione Montepaschi si andasse a intrecciare con la campagna referendaria è “costato” 3,8 miliardi.

Tutto questo ci dice anche che la politica nazionale è sempre stata parte – insieme – del problema e della soluzione. Ma non per dare indirizzi e strategie, bensì per mettere concretamente le mani in pasta, nella gestione del credito. Tutti a Siena riderebbero, se si affermasse in pubblico che adesso che il Montepaschi è nazionalizzato ed “entra la politica”.

La politica è sempre stata nel palazzo, con alterne forze e vicende, dalla creazione dell’istituto che doveva finanziare l’attività dei pascoli della zona (i “paschi”) ai tempi recenti. Anche dopo la “privatizzazione”, alla quale sono seguite operazioni espansive, dalla banca del Salento alla Antonveneta, sempre con un marchio di partito o di corrente. La finanza facile della fine del secolo scorso ha aiutato le avventure, ma non ha avvicinato molto lo spirito einaudiano del mercato citato in apertura.

Ma la politica pesa, e molto, anche nelle decisioni europee e in quelle dei supertecnici della Bce. Ha pesato in passato, quando si sono permessi molti salvataggi pubblici di banche in crisi (tedesche, spagnole, inglesi, irlandesi), per poi cambiare le regole subito dopo. Ha pesato di recente, nel confezionare un’unione bancaria monca, nella quale manca l’elemento essenziale, la garanzia europea. E ha pesato sulle ultime decisioni di Francoforte, dove nei giorni scorsi sono stati riletti, corretti e interpretati i parametri per giungere a una conclusione netta: le banche italiane devono avere lo stesso trattamento di quelle greche, l’asticella si alza ancora.

Risparmiatori di serie a e b
E il risparmio? Che ne sarà di chi ha affidato i suoi soldi, pochi o molti, a una banca che poi è andata in crisi? Nel suo slalom tra le complicate regole europee, il governo italiano intende interpretare la “ricapitalizzazione preventiva” in modo tale da poter salvare tutti i risparmiatori: i correntisti, sopra o sotto i centomila euro, e i risparmiatori, che hanno comprato obbligazioni della banca. E anche le famigerate “subordinate”, che invece sarebbero titoli a rischio.

Insomma il governo cerca un modo per evitare il cosiddetto burden sharing imposto dalle regole europee, per il quale non si devono mettere soldi pubblici se prima non hanno pagato gli azionisti e anche molti creditori della banca: tra questi, i possessori di obbligazioni subordinate e in alcuni casi anche i correntisti sopra i centomila euro.

Si viene a creare una disparità di trattamento rispetto a Banca Etruria e alle altre coinvolte dal fallimento dello scorso anno

In questo modo si sta introducendo un precedente, che alcuni a Francoforte vedono come un pericolo: forse anche per questo hanno alzato l’asticella. Se il governo riuscirà a salvare i 40mila che hanno comprato obbligazioni dalla banca e i correntisti più a rischio, lo farà però a caro prezzo: non solo economico, per il conto più salato presentato dalla Bce, ma anche morale e politico.

Con il salvataggio del Monte dei Paschi si viene infatti a creare una disparità di trattamento rispetto alle situazioni analoghe che si sono create nella Banca Etruria e nelle altre coinvolte dal fallimento dello scorso anno. In quel caso infatti i risparmiatori incauti che hanno comprato titoli della banca hanno perso tutto, a meno di non riuscire a dimostrare che quelle obbligazioni sono state vendute loro con l’inganno, nascondendone il rischio, oppure forzandone l’acquisto per avere altre agevolazioni dalla banca.

Nel caso di Montepaschi, invece, pare che il governo, da neoproprietario, risarcirà tutti, dichiarando che non c’è stato inganno. Il rischio è che per evitare il malcontento dei 40mila risparmiatori del Montepaschi faccia infuriare tutti gli altri, mettendo in atto ingiuste discriminazioni tra situazioni molto simili del passato – e del presente: pare che tra i risarciti ci sarà anche chi ha comprato da poco, a prezzi già scontatissimi.

Quanto al futuro, la domanda è: quanto ci vorrà per fare una legge, anche un decreto piccolo piccolo, o un regolamento Consob, che vieti alle banche di piazzare agli sportelli i propri prodotti finanziari? Il sonno della vigilanza, in tutta la vicenda che si va a chiudere con i fondi dei contribuenti, è ancora profondo.

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