“Stiamo lucidando le maniglie”. All’arsenale militare di Taranto si lavora “normalmente” per rispettare la tabella di marcia e consegnare nei tempi previsti la portaerei Cavour, in manutenzione da due anni. Senza mascherine e senza poter rispettare la distanza di sicurezza. “Avete presente come si lavora in una nave? Stretti stretti, altro che un metro di distanza”.

La denuncia viene da un operaio dei subappalti della Fincantieri, ed è stata riportata dal sito della Cgil Rassegna.it nel giorno della cosiddetta “chiusura totale”. Che totale non è. Non solo perché la lista delle produzioni che possono restare aperte pubblicata sulla Gazzetta ufficiale è lunghissima. E non solo perché esclude a priori “le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, nonché le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale”. Ma anche per il meccanismo di base introdotto, che consente alle aziende che non sono nella lista delle produzioni considerate “essenziali” di restare aperte, purché ne facciano domanda al prefetto, affermando che le loro produzioni sono funzionali alla filiera dei beni essenziali. A quel punto il prefetto può sospendere le produzioni, ma se non interviene si va avanti.

Queste maglie sono considerate troppo larghe dai sindacati e dai lavoratori delle zone più colpite dall’epidemia. Già il 23 marzo sono partiti gli scioperi in alcune fabbriche del bergamasco, le stesse che dall’inizio dell’emergenza hanno chiesto inutilmente la chiusura delle attività produttive nella zona rossa. In tutta la Lombardia è convocato uno sciopero territoriale per mercoledì 25, quando il decreto, che ha dato alle aziende il tempo di organizzare la chiusura e spedire le scorte, dovrebbe entrare effettivamente in vigore.

I lavoratori coinvolti
In linea generale, il decreto – annunciato su Facebook da Giuseppe Conte nella notte di sabato 21 marzo, ma pubblicato in Gazzetta ufficiale solo 20 ore dopo – prevede la sospensione delle attività produttive industriali e commerciali su tutto il territorio nazionale, salvo quelle contenute nell’elenco allegato al decreto stesso. La lista delle produzioni essenziali, la cui sospensione metterebbe a rischio vita e salute, è fatta ricorrendo ai codici Ateco (un acronimo che sta per attività economiche e che corrisponde alla classificazione compilata dall’Istat a fini statistici).

La lista conta un’ottantina di voci. Secondo una stima della fondazione Di Vittorio della Cgil, i lavoratori coinvolti sono circa 15,5 milioni: circa i due terzi del totale degli occupati in Italia, dipendenti e autonomi. Se si considerano solo i lavoratori dipendenti, “scendiamo” a 12 milioni, ossia il 66 per cento del totale dei dipendenti. Dentro ci sono anche lavoratori già messi in cassa integrazione per l’emergenza coronavirus, o che sono in smart working. Fatto sta che, nello stesso decreto con cui vorrebbe “chiudere” tutte le attività non essenziali, il governo lascerebbe aperta la porta ai due terzi dell’occupazione italiana.

Ma i codici dell’Istat mal si prestano a un intervento di pianificazione vasto e allo stesso tempo capillare come quello che l’emergenza da Covid-19 ha reso improvvisamente necessario per una produzione di mercato disseminata in una miriade di piccole e medie imprese com’è quella italiana, e in particolare nei brulicanti distretti produttivi del nord.

Alla lista delle produzioni esentate dal blocco si aggiungono molte eccezioni

Spesso coprono produzioni molto ampie e non tutte “di prima necessità”: per esempio, nel codice 11 delle bevande rientra l’acqua minerale, ma anche l’aranciata; nel codice 10 c’è tutta l’industria alimentare, dalla pasta al tartufo; l’inserimento della categoria “spago, corde, funi e reti” si può capire se si pensa a quanto rilievo ha, con la popolazione chiusa in casa, il confezionamento di pacchi e imballaggi, ma non tutta la produzione che va sotto quel codice serve per portarci la spesa a casa. L’industria chimica, tutta esentata dal blocco, serve certo come base per la farmaceutica, ma non solo. I call center sono inseriti nella lista degli esentati: senza distinguere tra quelli che in questi giorni danno informazioni essenziali per la salute e i trasporti, e quelli da cui ci arrivano informazioni e pressioni commerciali (l’attività detta outbound), di cui potremmo anche fare a meno.

A questa lista il governo ha lavorato per ore: troppe, la distanza che separa l’annuncio dalla pubblicazione fa pensare a pressioni fortissime da questo o quel settore produttivo, timoroso non tanto di far mancare servizi essenziali per una sospensione di qualche settimana, ma di perdere quote di mercato e competitività rispetto ai concorrenti internazionali. E allo stesso tempo troppo poche: dall’inizio dell’emergenza a oggi, i tecnici ministeriali avrebbero avuto diverse settimane per fare con più calma un lavoro di cesello.

In più, alla lista Ateco delle produzioni esentate dal blocco si vanno ad aggiungere molte altre eccezioni. Possono restare aperte le aziende che riescono a organizzare la produzione in smart working e tutti i servizi di pubblica utilità. Lo stesso vale per le industrie che hanno impianti a ciclo continuo (come gli altoforni), se dall’interruzione può derivare un grave danno alla sicurezza o alla produzione.

Dalla provincia di Bergamo, dal tessuto delle piccole e medie imprese che è uno dei centri propulsori del “nuovo miracolo italiano”, la cui geografia coincide in modo impressionante con quella del contagio del Covid-19, giungono notizie di scioperi e produzioni già sospese o fortemente ridotte. Sul tavolo della Fiom piovono le richieste di cassa integrazione, a cui vanno ad aggiungersi ferie volontarie o forzate, malattie vere, lavoratori che si mettono in malattia per paura. Il timore del sindacato è che il decreto non aiuterà, anzi darà alle aziende più forza contrattuale su tavoli cruciali con il meccanismo che permette agli imprenditori la possibilità di dichiarare di far parte della filiera produttiva “essenziale”.

“Noi non ci stiamo a fare il capro espiatorio di questa situazione”, ha detto al Corriere il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Le tre confederazioni sindacali chiedono una revisione del decreto per non lasciare “margini di discrezionalità” alle aziende. Lo stesso governo, nel testo della legge, ha precisato che la lista è suscettibile di revisioni.

Nell’attesa, mercoledì 25 marzo si fermeranno i lavoratori lombardi chiamati a lavorare in impianti che non siano essenziali per la filiera dell’alimentare e del farmaceutico e che non si siano adeguati alle condizioni di sicurezza concordate solo una settimana fa in un protocollo tra sindacati e Confindustria.

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