Il compromesso europeo non è all’altezza della crisi
“Questa volta è diverso”. Il presidente dell’eurogruppo Mario Centeno ce l’ha messa tutta per dare un senso di svolta storica ai risultati dell’incontro tra i ministri delle finanze della zona euro che, in seconda convocazione come un’assemblea condominiale mal assortita, hanno finalmente trovato un accordo nella sera del 9 aprile, alla terza o quarta settimana di lockdown per quasi tutta l’Unione e alle soglie di una recessione mondiale. “Proposte audaci e ambiziose impensabili solo poche settimane fa”, ha dichiarato Centeno, secondo il quale stavolta non si potrà dire che l’Europa ha fatto “troppo poco e troppo tardi, come in occasione della crisi finanziaria di dieci anni fa”. “L’Europa è solidarietà”, ha twittato il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni.
È così? È passata la linea del vasto fronte che chiedeva una svolta radicale nella politica europea – inaugurata da un non radicale come l’ex presidente della Bce Mario Draghi che, nell’ormai famoso articolo sul Financial Times, chiedeva “un cambio di mentalità, necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra”?
La risposta è nei numeri del pacchetto di aiuti deciso dall’eurogruppo (500 miliardi di euro), nei meccanismi scelti per elargirli, e in un’espressione chiave: safety net, rete di sicurezza. Il 9 aprile i ministri delle finanze dei paesi della zona euro hanno deciso di non rompere e gettare qualche piccola rete nel grande mare in cui rischiano di affondare l’economia e la società. Ma sapendo che non basterà, hanno rinviato ai loro capi di governo – cioè al Consiglio europeo – e alla Commissione le decisioni sul “recovery plan”, un piano per la ripresa economica i cui contenuti e contorni sono tutti da definire. Con il rischio che il “cambio di mentalità” arrivi – se arriverà – fuori tempo massimo per una crisi così rapida e imponente.
Tre reti e un rinvio
Le tre “reti di sicurezza” messe in campo dall’eurogruppo hanno altrettante sigle: Sure, Bei e Mes.
Il primo, il Sure, è uno strumento nuovo, creato per questa crisi, e consiste in prestiti a tassi prossimi allo zero ai governi per coprire il sostegno alla disoccupazione. Questo fondo metterà a disposizione cento miliardi per tutti i paesi interessati, a condizione che i governi versino 25 miliardi di garanzia. In sostanza, si tratta di un prestito a condizioni più vantaggiose di quelle che i paesi più indebitati e bisognosi troverebbero sul mercato. Converrebbe anche all’Italia, per risparmiare un po’ sugli interessi. L’economista Francesco Saraceno ha calcolato che se l’Italia e la Spagna – due paesi colpiti fortemente dal covid-19 e con un elevato debito pubblico – chiedessero ciascuna un prestito Sure da 25 miliardi, potrebbero “risparmiare” in interessi una quota pari allo 0,02 per cento del pil. È pur sempre qualcosa, ma di certo non è l’aiuto decisivo. E comunque si tratta di fondi che servono solo a tamponare le spese sociali di emergenza.
Poi ci sono i prestiti mobilizzati dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), che ha stanziato 25 miliardi per garantire prestiti per 200 miliardi, in questo caso destinati alle aziende.
Infine c’è il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), che offrirà ai governi una linea di credito da 240 miliardi per le spese sanitarie “dirette o indirette”. Per motivi più legati alla politica interna dei vari paesi che alla sostanza economica, il Mes ha catalizzato l’attenzione e le polemiche ed è al centro della propaganda sia dei rigoristi (ora capeggiati dal ministro delle finanze olandese Wopke Hoekstra, entrato in politica con i cristianodemocratici dopo una lunga carriera nella finanza internazionale), che lo considerano l’argine decisivo al lassismo fiscale del sud Europa, sia dei sovranisti d’ogni dove, che lo dipingono come l’anticamera di una nuova dittatura europea sul modello della troika nella crisi greca.
Una risposta comune a un problema comune avrebbe richiesto la mutualizzazione del debito pubblico
Il compromesso raggiunto dall’eurogruppo prevede che i prestiti erogati attraverso il Mes non siano sottoposti alle condizioni che normalmente li accompagnano, cioè il rispetto di rigorosi piani di rientro (l’austerità, in una parola). Ma potranno essere usati solo per le spese sanitarie, “dirette o indirette”. Da come sarà interpretato quest’ultimo aggettivo dipenderà l’uso effettivo dello strumento, che come gli altri due consente di risparmiare sugli interessi dei nuovi prestiti. Ammesso che i governi vogliano o debbano ricorrere al Mes, la cui portata resta comunque abbastanza limitata, e che era stato ideato per affrontare i problemi finanziari dei singoli paesi, non per rispondere a uno shock generalizzato.
Governi come quello italiano potrebbero scegliere di non usare il Mes, sia per lo “stigma” che comporta (ossia di essere un paese con problemi a finanziare il suo debito sui mercati), sia per il fatto che si tratta di prestiti a breve termine (due anni).
Condivisione del rischio
Una risposta comune a un problema comune avrebbe richiesto quello che manca nel compromesso finale dell’eurogruppo: ossia la mutualizzazione del debito pubblico contratto per far fronte a quella che secondo tutti sarà la più grave depressione economica (almeno) dal 1929. Che si chiamino coronabond o in un altro modo, non si tratta di solidarietà – cioè di trasferimento di denaro da un paese all’altro e da alcune tasche ad altre – ma condivisione del rischio. Su questo punto, l’eurogruppo ha deciso di non decidere, passando la palla alla Commissione europea, che dovrà trovare le risorse per un piano per la ripresa nel suo bilancio (pari solo all’1 per cento del pil dell’Unione) e in “strumenti finanziari innovativi”. In queste tre parole sta lo spiraglio lasciato aperto per gli eurobond. Ma la furibonda battaglia politica combattuta nell’eurogruppo ha dimostrato che si tratta di uno spiraglio molto piccolo.
Nell’economia del coronavirus il debito pubblico non è più una colpa, ma una necessità. Di questo sono convinti tutti i governi, di qualsiasi colore politico e latitudine, che stanno spendendo e stanziando in deficit sia per le spese necessarie a sostenere i sistemi sanitari sia in quelle (molto più ingenti) per evitare che la recessione provocata dall’isolamento diventi una lunga e profonda depressione. Per tornare a citare l’articolo di Draghi: “Un debito pubblico molto più alto diventerà una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnato dalla cancellazione dei debiti privati”. Appelli per introdurre forme di mutualizzazione del debito sono arrivati da economisti di estrazione diversa, dalla proposta di “eurobond perpetui contro il covid-19” avanzata da Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, agli eterodossi del gruppo Euromemo (che chiedono un “cambio di paradigma” più generale, a partire dalla svolta ecologica).
La situazione è completamente diversa rispetto alle precedenti crisi del debito, e di fronte a essa un’unione monetaria costruita sul rigore fiscale e sul pareggio di bilancio è poco attrezzata. È vero che i due bastioni principali a protezione di questi princìpi sono caduti: sono sospese sia le regole del patto di stabilità sia quelle che proibiscono gli aiuti di stato. Ciò vuol dire che i governi nazionali possono intervenire a tutela delle “proprie” aziende e indebitarsi per sostenere cittadini e aziende, senza incorrere nelle punizioni comunitarie. Ma è qui che uno shock uniforme diventa asimmetrico: poiché se ogni governo può indebitarsi per conto suo, non tutti partono dalla stessa situazione e non tutti troveranno sui mercati le stesse condizioni.
Seguendo il “metodo Monnet” (l’Unione europea procede a piccoli passi, con improvvise accelerazioni durante le crisi) qualcuno ha pensato che fosse questa l’occasione giusta per spingere su una unione fiscale, attraverso il primo passo della mutualizzazione del debito con i coronabond.
Nell’attesa, la vera rete di sicurezza è costituita ancora una volta dalla Bce, con i suoi programmi di acquisti di titoli destinati a iniettare liquidità nell’economia e a evitare l’aumento degli spread.