Cosa serve davvero al mezzogiorno d’Italia
Tanti soldi e subito. La decontribuzione per le assunzioni nel mezzogiorno d’Italia è la parte più consistente del decreto approvato dal governo il 7 agosto. Quel che si sa, in attesa della pubblicazione del decreto, è che ci sarà uno sgravio del 30 per cento sui contributi pensionistici alle imprese che operano nelle “aree svantaggiate”, definite sulla base dei criteri della politica di coesione europea: un prodotto pro capite inferiore al 75 per cento della media nell’Unione europea e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale. Dunque, tutte le regioni del mezzogiorno: Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.
La misura è annunciata come strutturale: dovrebbe durare fino al 2029, con andamento decrescente dello sgravio. È una manovra quasi decennale, quindi diversa dalle decontribuzioni limitate del passato, come lo sgravio contributivo di tre anni dato dal governo Renzi alle imprese che assumevano a tempo indeterminato nel 2015, o le decontribuzioni selettive, come quelle per le assunzioni di disoccupati di lunga durata e Neet (giovani che non si stanno formando e non lavorano).
Il costo stimato per quel che resta del 2020 è di un miliardo, il che porta a ipotizzare all’anno sarà sui quattro-cinque miliardi. Una cifra considerevole, una delle più consistenti fra quelle elargite durante e dopo la crisi sanitaria. Quella che affronta un problema strutturale e storico dell’economia italiana – la questione meridionale – e dunque solleva due domande: basta tagliare il costo dei contributi previdenziali per ridurre il divario territoriale? E chi pagherà questa misura?
I divari da colmare
Qualche giorno fa proprio il ministro per il sud e la coesione territoriale Beppe Provenzano, autore della proposta, ha pubblicato un lungo post su Facebook per celebrare i settant’anni della Cassa per il Mezzogiorno, contro la “riduzione a caricatura” di una “storia di successi e fallimenti”, nel quale rivendica lo spirito dei fondatori e, pur non nascondendo degenerazioni e abusi, i risultati positivi per l’industrializzazione e l’avanzamento del sud.
In confronto all’investimento diretto dello stato – il paragone è con la Tennesse valley authority durante il New deal americano degli anni trenta – lo sgravio del 30 per cento del costo del lavoro per le imprese è una piccola cosa, e lo stesso Provenzano non manca di ripetere che è solo una parte del “piano per il sud”. I divari da colmare infatti sono tanti ed esistono da prima del covid-19, che in termini di prodotto interno lordo (Pil) ha colpito più il nord che il sud. È stata la stessa associazione per lo Sviluppo industriale del mezzogiorno (Svimez) – da cui Provenzano proviene – ad analizzare le conseguenze della pandemia in Italia: il crollo atteso per il 2020 è del 9,6 per cento nel centro-nord e dell’8,2 per cento nel mezzogiorno. Ma l’impatto sull’occupazione è più forte al sud: si stima una perdita di 380mila posti di lavoro. In un solo anno nella parte più in difficoltà del nostro paese ci sarà un calo dell’occupazione più grande di quello causato dalla recessione che si è verificata tra il 2009 e il 2013, quando si persero 360mila posti di lavoro. Dunque, le conseguenze in termini economici e sociali del covid-19 possono essere devastanti per il sud, e la ripresa che si prevede più rapida al nord rischia di scavare ancore di più il baratro già esistente.
Le ragioni di questo baratro sono scritte nella storia economica italiana. A leggerne le testimonianze più recenti, però, il costo del lavoro non è quella principale. O meglio, il maggior costo del lavoro per unità di prodotto nel mezzogiorno dipende da una serie di fattori tutti “esterni” al posto del lavoro. Basta scorrere l’ultimo rapporto Svimez, pubblicato prima dell’emergenza sanitaria: vi si legge che nel decennio 2008-2018 gli investimenti sono scesi in tutt’Italia, ma al sud in misura doppia (meno 32,3 per cento nel mezzogiorno, meno 15,5 per cento nel centro-nord). Che lo “Stato investitore”, in ritirata ovunque, si è disimpegnato soprattutto nel sud (la spesa in conto capitale delle pubbliche amministrazioni è passata da 56,9 a 34,6 miliardi in Italia, ma nel meridione si è passati da 22 miliardi a dieci miliardi).
Il divario è ancora più grande se si guardano gli indicatori sulla qualità della vita: la quota di bambini iscritti in una scuola primaria senza tempo pieno è dell’84,1 per cento nel mezzogiorno, del 51,9 per cento nel centro-nord. Il tasso di abbandono scolastico registra un 18,8 per cento nel meridione, l’11,7 nel centro-nord. Nelle regioni più in difficoltà la percentuale dei working poor – persone che pur avendo un lavoro vivono sono sotto la soglia di povertà – è quadrupla rispetto a quella rilevata nel centro-nord.
Poca occupazione e di bassa qualità; pochi servizi, che concorrono a ridurre l’occupazione femminile; infrastrutture carenti, sia tradizionali sia innovative. A ciascuno di questi capitoli corrispondono possibili politiche e non hanno a che vedere con i contributi previdenziali.
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, intervenendo agli stati generali convocati dal governo a luglio e parlando delle “necessità di riforma dell’economia italiana”, ha messo l’accento sul mezzogiorno, nominando sia i guai della pubblica amministrazione i ritardi per quanto riguarda la banda larga ultraveloce, scuola e l’università. Concludendo:
Sono stati numerosi, nel tempo, i tentativi di affrontare la ‘questione meridionale’, con interventi tanto diversi nell’impostazione quanto deludenti nei risultati (…) bisogna intervenire sui fattori alla base del ritardo, non ci si può affidare solo ai tentativi di compensarlo con trasferimenti monetari.
Ci si può chiedere se lo sgravio dei contributi possa essere anch’esso una forma di “compensazione” per tutti gli altri problemi. Ossia se un’impresa possa essere indotta a investire nel sud per lo sconto sui contributi, anche se avrà problemi di connessione, trasporto, reperimento di personale, inefficienze varie, e se in un eventuale passaggio al tribunale civile dovrà sprecare il 40 per cento di tempo in più che nel resto d’Italia. Il ministro per il sud Provenzano hain più occasioni detto che lo sgravio contributivo è solo una parte della manovra, e un piano generale di investimenti pubblici dovrà accompagnarlo. Ma la massima priorità e urgenza è stata data, per ora, proprio ai fondi per la decontribuzione.
Forse su questo ha inciso la volontà di utilizzare subito i soldi del piano react Ue, pensato per potenziare i fondi strutturali stanziati dall’Unione europea durante la pandemia. Per la decontribuzione non si useranno i fondi del recovery plan – che dovrebbero essere destinati a investimenti in sviluppo sostenibile e digitalizzazione – ma, probabilmente, quelli della politica di coesione. Questi fondi vanno impiegati velocemente, e l’Italia di solito non brilla per tempestività. Dunque la spinta sulla decontribuzione – della cui efficacia il ministro Provenzano è sempre stato convinto – può essere legata anche a questo. Ma il governo dovrà convincere l’Unione europea che gli sgravi per il sud non distorcono il mercato e non sono una forma di aiuto di stato vietata dai trattati.
È vero che la stessa politica europea prevede gli aiuti per le aree in maggiore difficoltà; ma è altrettanto vero che il piano italiano porterebbe all’istituzione di una sorta di grande zona speciale, al cui interno c’è una fiscalità di vantaggio. Un’eventualità non nuova per l’Europa – si pensi al Portogallo con la sua politica fiscale per attrarre i pensionati europei, o alle varie zone economiche speciali che già ci sono nella stessa Italia e in Europa – ma inedita nella sua estensione.
Forse per questo i dettagli del decreto devono essere ancora resi noti. È probabile che l’estensione della misura oltre il 2020 richiederà una trattativa serrata con Bruxelles. Le modalità di attuazione dovranno sciogliere anche altri dubbi rilevanti sui beneficiari. Per esempio: un’azienda potrà chiudere uno stabilimento nel nord dell’Italia per delocalizzare al sud? La Fca potrà spostare una linea produttiva da Mirafiori a Melfi, godendo di vantaggi contributivi? Lo sgravio varrà anche per i lavoratori in proprio, per le partite iva? Come dimostra la vicenda del bonus di seicento euro di cui hanno approfittato persone che non ne avevano bisogno, si tratta di dettagli di cui tenere conto.