La retromarcia di economisti e politici per non sbagliare di nuovo
Se Dante avesse dovuto scegliere un posto per gli economisti pentiti, forse li avrebbe messi nel Purgatorio. Di sicuro, oggi dovrebbero aumentarne la capienza per accogliere tutti i sostenitori dell’austerità fiscale che hanno cambiato idea in questi ultimi anni, rivalutando i vantaggi dell’intervento pubblico anche quando finanziato con il debito. Alla fine del 2020, il coro è stato guidato dalle due massime istituzioni internazionali che hanno dettato le regole del trentennio neoliberista, temporaneamente chiuso con la crisi del 2007-2008 e archiviato dalla pandemia: il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Qualcosa di simile a dire il vero si era già visto dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime, con i salvataggi pubblici della finanza privata. Ma allora era uno stato di necessità e presto si è cercato di tornare al business as usual. Adesso c’è qualcosa in più, che potrebbe fare pensare a un cambio di paradigma.
Le ultime parole destinate a diventare famose le ha dette Laurence Boone, capo economista dell’Ocse, in un’intervista al Financial Times nella quale lancia un appello ai governi: per non ricominciare con l’austerità, continuate a spendere. Già l’ultimo rapporto dell’organizzazione lo aveva messo nero su bianco: “Le politiche dovranno continuare a sostenere fortemente l’attività economica, almeno fino alla fine dell’emergenza sanitaria”.
Su cosa puntare, cosa evitare
Il rapporto dell’Ocse, oltre a dare i numeri senza precedenti della recessione mondiale, riconosce che le politiche pubbliche per tenere vivi interi settori, imprese e lavori sono riuscite in qualche modo a moderare gli effetti negativi. Pur con differenti impatti a seconda delle diverse situazioni, “le lezioni degli ultimi nove mesi”, si legge, “dicono che quest’azione politica era e resta appropriata”.
Ora, cominciata la campagna di vaccinazione, non è il caso di interrompere il supporto pubblico, semmai si tratta di indirizzarlo meglio a coloro che sono stati più colpiti. Ci sarà tempo, quando la ripresa sarà consolidata, di assicurare la sostenibilità del debito. Ma la frase più importante è questa: “Il fatto che i vaccini sono in vista suggerisce che questo non è il tempo di ridurre il supporto, come è stato fatto troppo presto dopo la crisi finanziaria globale”.
L’inciso in corsivo (mio) implica un’autocritica. Anche nel 2008, di fronte a quella che era la più grave crisi dal dopoguerra nel mondo occidentale, gli stati intervennero, eccome. Ma subito dopo si tornò all’ortodossia dello stato minimo e del contenimento dei debiti pubblici mentre, notava lo stesso Fmi, la mole del debito privato mondiale continuava a crescere. La precoce stretta post-crisi fu particolarmente dura in Europa, sia nella politica monetaria (la Banca centrale europea prima di Draghi) sia in quella fiscale, strangolando le economie europee più fragili e portando al doppio capitombolo della crisi stessa, negli anni 2010-2011.
Non esiste una ricetta unica
Nell’intervista al Financial Times, Boone dice però qualcosa di più. Ricorda appunto che nel 2008 le politiche di stimolo fiscale si fecero, ma furono abbandonate troppo presto. Dobbiamo imparare da quella lezione, da tutti e due i lati dell’Atlantico, aggiunge, spiegando che i governi non devono porsi obiettivi numerici a breve termine di rientro dal deficit e dal debito. Di più, dobbiamo anche dimenticare che abbiamo in tasca un’unica ricetta che si adatta a tutti. Boone strappa così i due simboli di quelle istituzioni che lo stesso Financial Times definisce ”le cheerleader dell’austerity”. Ne esiste una terza, cioè la predominanza della politica monetaria: non è sano lasciare tutto il potere e il peso della politica di ripresa alle istituzioni monetarie, che non sono democraticamente elette e sono guidate soprattutto dalla preoccupazione sull’inflazione.
La politica monetaria ha un impatto sulla redistribuzione del reddito, anche se non è suo compito: tocca alla politica fiscale occuparsene, tanto più con l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri che la pandemia sta aggravando, con il rischio di un forte aumento delle diseguaglianze sociali.
La pensano allo stesso modo al Fondo monetario internazionale, un’altra istituzione cardine del cosiddetto Washington consensus (la dottrina associata alla svolta degli anni ottanta, basata sulla stabilizzazione macroeconomica, le privatizzazioni, la deregulation e lo stato minimo). È interessante che anche in questo caso alla guida ci sia una donna, Gita Gopinath, la cui popolarità è uscita dai confini della politica e dell’accademia da quando Vogue le ha dedicato una copertina.
Nel Fiscal monitor pubblicato nell’ottobre 2020, l’Fmi insiste perché i governi non alzino il piede dal pedale della spesa pubblica, sottolineando in particolare il ruolo degli investimenti pubblici: prima della pandemia, vi si legge, nelle economie industrializzate si era assistito a una generale riduzione degli investimenti pubblici (come del resto richiesto dallo stesso Fmi, va aggiunto). Così, molte infrastrutture non erano più all’altezza dei bisogni. Adesso, si legge nel documento, bisogna dedicare capitali pubblici alle infrastrutture, in particolare quelle sanitarie, quelle per lo sviluppo digitale e quelle per la transizione ecologica.
L’eccezionale situazione sui mercati monetari, con tassi di interesse prossimi allo zero o negativi nelle economie avanzate e anche in parte di quelle in via di sviluppo, aiuta questo processo: il debito che si fa per finanziare gli investimenti pubblici è a basso costo e potrebbe restarlo per molto tempo. L’Fmi fa calcoli molto ottimisti su quello che si chiama il “moltiplicatore” degli investimenti: spendere l’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) in investimenti pubblici potrebbe portare, nelle economie industrializzate e in quelle emergenti, a creare sette milioni di posti di lavoro in maniera diretta e 33 milioni indirettamente, grazie all’indotto.
Boone e Gopinath, rappresentanti del nuovo keynesismo di questi anni venti, non sono sole. Un’altra intervista importante aveva inaugurato il nuovo corso, quella di Mario Draghi, che il 25 marzo 2020, dunque all’inizio della pandemia, chiamò alla mobilitazione contro il covid-19, facendo questa previsione: “Un debito pubblico molto più alto diventerà un carattere permanente delle nostre economie e sarà accompagnato da una cancellazione dei debiti privati”.
La svolta interessa università, centri di ricerca, pensatoi dei governi mondiali. E sia Boone sia Gopinath hanno alle spalle le loro potenti istituzioni, nelle quali il ripensamento delle vecchie ricette era già cominciato dopo la grande crisi del 2008. Allora si pensò che era solo una questione di sano pragmatismo: i salvataggi pubblici servono quando il privato ha bisogno, appena l’economia si rimette in piedi le caselle dell’ortodossia tornano a posto. Stavolta potrebbe essere diverso, e il ruolo pubblico non dovrebbe essere limitato a dispensare pietosi cerotti per le vittime più deboli o costosissimi salvataggi per i potenti. Si tratta di traghettare l’economia dal mondo pre-covid a quello post-covid, e per farlo i governi devono riappropriarsi degli strumenti del bilancio pubblico.
Gli ostacoli, a questo punto, non sono in un consenso cementificato e potente attorno ai vecchi schemi; né nella mancanza di risorse, data l’eccezionale disponibilità di denaro a buon mercato: con tassi di interesse pari a zero o negativi, e un tasso di risparmio salito a livelli record, i governi hanno buone possibilità di salvare le generazioni di oggi senza aggravare il debito di quelle future. Ma sapranno farlo? L’incomprensibile crisi politica in Italia, che fa venire in mente i poveracci di Miseria e nobiltà sorpresi a litigare attorno al tavolo improvvisamente imbandito mettendosi in tasca i maccheroni, non deve trarre in inganno, facendo pensare che sia una tragicommedia all’italiana. Le altre classi dirigenti non se la cavano molto meglio.
L’Europa ha avuto uno scatto di reni con il piano Next generation EU, ma adesso si tratta di metterlo in pratica. I politici sono intrappolati nella logica del breve periodo e dei confini nazionali (se non regionali), hanno strumenti di politica pubblica arrugginiti, e spesso non hanno la minima idea di come usarli. E così ricorrono alle vecchie abitudini della contrattazione con gli interessi forti e i gruppi che hanno maggiore capacità di pressione. Tutto il contrario di quel che servirebbe: l’uso del bilancio ordinario, nel breve periodo, per redistribuire e tutelare gli interessi dei più deboli, di quelli più colpiti dalla crisi, e l’uso del debito straordinario per investimenti in beni pubblici nel medio e lungo periodo.