×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

I cento giorni della nuova Etiopia

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed durante un discorso ad Ambo, 11 aprile 2018. (Zacharias Abubeker, Afp)

Nei suoi primi cento giorni in carica Abiy Ahmed, il nuovo presidente del consiglio etiope, ha attuato dei cambiamenti radicali. In questo non è solo: tutti i nuovi leader sanno di dover dare un po’ spettacolo nei loro primi mesi di governo e di dover agire di conseguenza. Ma la portata e la profondità delle riforme di Abiy suggeriscono che potrebbero essere più che semplici azioni di facciata.

Pensiamo a John Magufuli, arrivato al potere in Tanzania nel 2015. Aveva promesso un cambiamento agli elettori, e aveva bisogno di mantenere l’impegno – o almeno di fingere di farlo. Ha annullato le celebrazioni per l’indipendenza in nome del rigore. Ha tagliato la spesa per una cena di stato e ha usato i soldi risparmiati per comprare dei letti per gli ospedali. È andato senza preavviso al ministero delle finanze, rimproverando i funzionari che non erano alla loro scrivania. Ha visitato un ospedale e, inorridito dalle cattive condizioni, ha licenziato su due piedi il suo direttore.

Se non altro, quelle prime settimane della sua amministrazione avevano dato un impulso senza precedenti alle pubbliche relazioni. I tanzaniani erano rimasti decisamente colpiti, e così anche i cittadini di altri paesi africani, che volevano che anche i loro presidenti imparassero qualche lezione. Era nato l’hashtag #WhatWouldMagufuliDo: gli africani in tutto il continente lo usavano – con grande arguzia e umorismo – per esprimere le loro speranze e i loro sogni.

In attesa di arrivare in vetta
Ma non erano solo i normali cittadini a prestare attenzione. Lo facevano anche altri aspiranti presidenti, quelli che aspettavano il loro turno per raggiungere la vetta, che non potevano ignorare le lodi rivolte a Magufuli e che capivano meglio di chiunque altro quanto poco lui avesse fatto per guadagnarsele.

A quel punto, Magufuli doveva ancora avviare una qualsiasi riforma significativa. Non aveva aperto lo spazio politico del suo paese; non aveva affrontato in modo significativo la corruzione dello stato, il che avrebbe coinvolto figure di rilievo all’interno del suo partito; non aveva introdotto una riforma radicale per trasformare il traballante sistema sanitario e quello scolastico.

Non l’ha ancora fatto. L’eccitazione iniziale che lo circondava è scomparsa. Anzi, la Tanzania sotto la sua guida è regredita, e le libertà civili fondamentali sono sempre più minacciate.

Però Magufuli ha imposto un modello che è stato seguito negli anni successivi da una parata di nuovi leader africani, i quali hanno capito che lo spettacolo è più importante della sostanza quando si tratta di generare titoli positivi nei mezzi d’informazione e di riciclare la propria reputazione, a volte discutibile.

In Sudafrica, per esempio, Cyril Ramaphosa si è trasformato in un beniamino dei social network quando ha partecipato a una conferenza a Kigali raggiungendo il Ruanda con un aereo della South African Airways, invece di noleggiare un aereo privato – anche se la Saa non vola a Kigali, e dunque l’aereo è stato noleggiato per l’occasione.

In Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa ha scelto di indossare una sciarpa e ha adottato un nuovo mantra – “Lo Zimbabwe è aperto alle imprese” – per confermare le sue credenziali riformiste, sperando che i colori vivaci aiutino a dimenticare i decenni trascorsi come braccio destro di Robert Mugabe.

In Angola, il presidente João Manuel Gonçalves Lourenço ha dato un grande spettacolo licenziando i familiari dell’ex presidente José Eduardo dos Santos da posizioni di alto livello – ma, sostengono i critici, tutto ciò che ha ottenuto è stato di cambiare chi approfitta della corruzione, invece di affrontare la corruzione.

Solo l’anno scorso, nessuna di queste riforme sarebbe stata pensabile. Insieme, sono una rivoluzione

Così, quando Abiy Ahmed si è insediato in Etiopia, nell’aprile di quest’anno, in seguito alle dimissioni a sorpresa del suo predecessore Hailemariam Desalegn, gli osservatori potevano essere perdonati per il loro scetticismo quando ha promesso di avviare un’ampia gamma di riforme necessarie.

Per una volta, quello scetticismo potrebbe essere stato eccessivo.

Nei suoi primi cento giorni in carica, Abiy ha liberato migliaia di prigionieri politici; ha dichiarato la fine dello stato di emergenza; ha annunciato piani per privatizzare parzialmente le industrie chiave, comprese le telecomunicazioni e l’aviazione; ha ammesso e denunciato l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza dello stato; e ha licenziato funzionari carcerari implicati in violazioni dei diritti umani seguendo un rapporto di Human Rights Watch.

Ha anche messo fine a una guerra. Le ostilità tra l’Etiopia e l’Eritrea risalgono a decenni fa, ma Abiy ha impiegato solo poche settimane per concludere un accordo di pace con Isaias Afwerki, la sua controparte ad Asmara. Fondamentalmente, Abiy era pronto a fare concessioni, incluso il ritiro di truppe dalle regioni di confine contese. Ora ci sono voli di linea tra i due paesi e, per la prima volta, sono state ristabilite le comunicazioni telefoniche, consentendo alle famiglie separate da lungo tempo di parlare tra loro per la prima volta in questo secolo.

Solo l’anno scorso, nessuna di queste riforme sarebbe stata pensabile. Insieme, sono una rivoluzione – una rivisitazione totale dello stato etiopico.

Tale è stata la velocità e la portata dei cambiamenti di Abiy che gli etiopi stanno cominciando a pensare che la cosa possa essere reale. In centinaia stanno tornando dall’esilio, desiderosi di credere che questa volta le cose siano davvero cambiate.

“Quello che sta succedendo in questo paese va oltre i nostri sogni e la nostra immaginazione”, ha detto Hallelujah Lulie, direttore del programma di Amani Africa ed esperto analista politico non incline alle iperboli. “Non possiamo dire che i cambiamenti siano irreversibili. Ma a questo punto sembrano genuini”.

La più grande minaccia al programma di riforme di Abiy, sostiene Lulie, non arriverà probabilmente da una mancanza di volontà politica da parte del primo ministro, ma da parte di coloro che sono stati penalizzati dal nuovo corso. Cambiare direzione in modo così drastico non è mai semplice, come dimostra l’attacco a colpi di granate del mese scorso alla folla in un discorso di Abiy ad Addis Abeba, che ha ucciso due persone e ne ha ferite 150. Ci sono elementi potenti all’interno dell’élite al potere e del settore della sicurezza con forti interessi a mantenere lo status quo. “Credo che le maggiori sfide possano essere quelle strutturali, come il rilancio dell’economia, e l’accordo nella coalizione di governo. L’Etiopia ha avuto uno stato autoritario molto repressivo. Al momento siamo in una fase di transizione e le società in transizione affrontano sfide particolari “, ha detto Lulie.

C’è ancora molto lavoro da fare per Abiy. Per smantellare veramente lo stato autoritario, ha bisogno di riformare completamente il settore della sicurezza e sancire i diritti e le libertà fondamentali nella legge etiopica. Ma a questo punto, chi scommetterebbe contro di lui, viste le premesse? Nei suoi primi cento giorni in carica, Abiy ha già raggiunto più di quanto molti leader possano mai sognare: cambiare radicalmente il panorama politico dell’Etiopia e, contemporaneamente, di tutta la regione del Corno d’Africa.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale sudafricano Mail & Guardian.

pubblicità