Oggi a Bruxelles è cominciato il Consiglio europeo che, tra le altre cose, cercherà di dare una risposta alla crisi migratoria che sta avvenendo alle porte e all’interno dell’Europa. In questa occasione i leader degli stati membri dell’Unione europea (Ue) parleranno molto di “solidarietà” e di “responsabilità”, di “sforzi condivisi” e di “politica sostenibile”. Sanno che il mondo li osserva mentre gestiscono una delle più gravi emergenze umanitarie e politiche dall’inizio del ventunesimo secolo: le guerre e la repressione in Siria, in Iraq, Eritrea, Libia e altrove gettano sulla strada migliaia di rifugiati che fuggono dalle bombe o dalle persecuzioni.

La miseria o il semplice desiderio di una vita migliore spingono sempre più migranti a mettere a rischio la propria vita in viaggi pericolosi e difficili (48 cadaveri sono stati recentemente trovati nel Sahara, in Niger) e ad affrontare la prigionia in Libia, i maltrattamenti dei trafficanti, la traversata del Mediterraneo. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dall’inizio dell’anno più di centomila persone sono sbarcate in Europa attraverso questa rotta (54mila in Italia, 48mila in Grecia), a fronte dei 219mila dell’anno scorso, un numero già tre volte più alto del record precedente di 70mila registrato nel 2011 in seguito alle rivolte nel mondo arabo. Dal gennaio 2015, almeno 1.865 uomini, donne e bambini sono morti o scomparsi in mare. Negli ultimi quindici anni, ci sono state almeno 22mila vittime secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

A Calais, a Lesbos, a Nizza, a Catania i cittadini si mobilitano in solidarietà con i migranti

Di fronte a questa tragedia, al Consiglio di Bruxelles si parlerà necessariamente di solidarietà. Ma come si tradurrà in concreto questa parola, se gli stati membri dell’Ue nelle ultime settimane non sono stati nemmeno in grado di mettersi d’accordo per ripartire sui loro territori quarantamila richiedenti asilo? A mo’ di paragone, basti pensare che la Turchia accoglie da sola 1,7 milioni di siriani e il Libano 1,1 milioni, cioè circa un terzo della sua popolazione. Un alto funzionario delle Nazioni Unite, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha recentemente dichiarato a Ginevra che l’Unione europea avrebbe i mezzi per accogliere un milione di rifugiati.

Il relatore speciale dell’Onu per i diritti dei migranti, François Crépeau, ha decostruito il mito delle “orde di migranti”, ricordando che questi ultimi rappresentano solo una percentuale infima (0,0004 per cento nel 2014) dei 500 milioni di europei. Invocando una maggiore apertura delle frontiere, il relatore denuncia il fallimento delle politiche repressive facendo il paragone storico con il fiasco del proibizionismo negli Stati Uniti: “La mafia creata dalla messa al bando degli alcolici è stata vinta solo quando la vendita è stata legalizzata, regolamentata e tassata”, ha ricordato Crépeau.

Gli sgomberi sistematici, la catena umana

In Europa è altrove che sorge la solidarietà. Non negli uffici delle alte sfere del potere, ma nella dimensione più concreta della quotidianità. Se gli italiani e i greci sono stati convolti per primi, ormai tutti gli europei lo sono. In Macedonia, una donna cura le ferite degli afgani che risalgono verso nord in bicicletta; a Lesbos, in Grecia, la vita del sindaco è stata trasformata dalle famiglie che sbarcano quotidianamente su gommoni gonfiabili; a Catania, in Sicilia, una ragazzaitalo-marocchina ha creato da sola un sistema d’allerta per i siriani persi in mare, che la chiamano a ogni ora per comunicarle la loro posizione gps, che lei poi segnala ai mezzi di soccorso; a Milano, degli studenti fanno i turni alla stazione centrale per aiutare e dare indicazioni alle centinaia di migranti in transito; a Nizza, volontari della Croce rossa distribuiscono zuppe calde a uomini e donne che hanno appena attraversato la frontiera a piedi lungo le montagne; a Calais, in Francia, un blogger militante registra su internet ogni minimo cambiamento nelle “giungle”, gli accampamenti informali dei migranti che vogliono attraversare la Manica e raggiungere il Regno Unito.

A Parigi, si registra uno slancio di solidarietà mai visto dal 1996, quando un gruppo di sans-papiers si era trincerato all’interno della chiesa di Saint-Bernard, poi sgomberata con la forza dalla polizia. Poco lontano da quel luogo, l’accampamento di tende presente per mesi sotto il ponte della metropolitana alla stazione di La Chapelle è stato ignorato a lungo dall’amministrazione pubblica. Ma raramente gli occupanti hanno avuto fame o sete. Gli abitanti del quartiere si sono dati il cambio per portare loro da mangiare. Inizialmente, la loro azione è rimasta invisibile. Dopo la distruzione delle tende, il 2 giugno, le presenze sono aumentate. Alcuni immigrati, registrati secondo il loro potenziale status amministrativo (richiedenti asilo o “migranti economici irregolari”), sono stati ospitati in strutture temporanee sparse per la regione. Gli altri, un centinaio a cui si sono aggiunti alcuni nuovi arrivati, si sono ritrovati a vagare per le strade della capitale francese: per più di due settimane, sono stati rincorsi e scacciati dai poliziotti.

Alcuni hanno trovato riparo nei Jardins d’Éole, lungo i binari della gare de l’Est, vicino a La Chapelle, a pochi metri dal punto di partenza. Il 19 giugno, i materassi installati lì da una settimana sono stati presi e gettati nei camion spazzatura. Il quartiere è di nuovo bloccato, un altro accampamento smantellato. Nel corso della mattinata, la maggioranza delle persone presenti, eritrei e sudanesi per lo più, hanno accettato di ridirigersi verso i centri d’accoglienza straordinari per una durata indeterminata. Con un ultimatum: ora o mai più. Altri, più diffidenti, si sono rifiutati di salire sull’autobus preferendo restare con le persone incontrate lungo la strada, a costo di dormire all’addiaccio.

Alcuni abitanti hanno aperto le porte dei loro appartamenti per una notte o due, altri hanno dato la possibilità di ricaricare i cellulari, riempito lavatrici o custodito le cose di valore dei migranti

Di fronte ai mucchi di vestiti sparsi, i residenti hanno assistito impotenti alle operazioni. “Sappiamo che torneranno nel quartiere. È qui che hanno le loro abitudini, la rete di solidarietà che si è formata intorno a loro si riformerà molto presto”, assicura Neymalie, 25 anni. Tra mille altre cose, questa ex studentessa di legge non ha mai smesso di dare consigli giuridici. Per una settimana, questo luogo ha conosciuto una mobilitazione permanente. Traduttori, infermieri, avvocati: ciascuno ha contribuito in funzione delle proprie competenze e delle proprie possibilità. Alcuni abitanti hanno aperto le porte dei loro appartamenti per una notte o due, altri hanno dato la possibilità di ricaricare i cellulari, riempito lavatrici o custodito le cose di valore dei migranti; altri ancora sono andati al mercato a comprare frutta e verdura.

Come reazione alla violenza degli sgomberi di rue Pajol, in seguito ai quali una quarantina di profughi sono stati portati in centri di detenzione, le azioni di sostegno si sono moltiplicate. È stato creato un collettivo ed è nata una mailing list per favorire le comunicazioni e stilare una lista dei bisogni: scarpe, pantaloni, foulard, coperte, materassi, schede telefoniche.

Alcuni migranti hanno espresso il desiderio di recuperare zaini e valigie, segno che hanno voglia di riprendere il viaggio. “Abbiamo fatto quello che potevamo. Abbiamo dovuto prendere la situazione in mano per compensare l’inerzia delle autorità. Queste persone sono sopravvissute a molti pericoli per venire fino a qua. È una vergogna non fare nulla”, dice Neymalie, venuta a dare una mano quando ha visto su Facebook che i rifugiati avevano bisogno di tutto. Accanto a lei, Ghita, 26 anni, discute con le persone che ha conosciuto in questi ultimi giorni. “La mobilitazione crea degli scambi”, spiega. “Sono venuta perché un amico, sapendo che abito nel quartiere, mi ha dato una busta piena di vestiti”. La mobilitazione è cresciuta, secondo lei, grazie ai mezzi d’informazione. “Tutti hanno visto in televisione le immagini dei barconi. E ora che sono là, sotto alle nostre finestre, non possiamo restare a guardare”.

Due ragazze che vivono lì accanto sono d’accordo, ma ammettono che all’inizio erano imbarazzate quando hanno visto le tende sotto il loro palazzo. “In un primo momento eravamo un po’ scettiche. Abbiamo pensato che la cosa avrebbe creato delle tensioni. E poi, invece, abbiamo deciso di agire. È stato l’intervento brutale della polizia a spingere la gente a intervenire”. La mobilitazione del quartiere non sorprende Anissa Khelifi, che ha un ristorante proprio di fronte: “Qui conosciamo bene la sofferenza e l’aiuto reciproco. È un quartiere difficile: c’è il crack, i senza fissa dimora, gente un po’ perduta. Ma siamo persone multiculturali, solidali”.

L’azione di questa catena umana ha avuto un effetto “protettivo”: la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha evidenziato la “solidarietà” e la “compassione” dei parigini, “soprattutto in quartieri molto popolari”. Intervistata alla radio, ha escluso ogni “sgombero”. Il che non ha impedito però che gli sgomberi avvenissero, ma almeno il numero di poliziotti è stato ridotto mentre quello dei posti nelle strutture d’ospitalità è aumentato.

Durante lo sgombero del campo profughi abusivo in via delle Messi d’Oro a Ponte Mammolo, l’11 maggio 2015, a Roma. (Massimo Percossi, Ansa)

Stessa situazione a Roma. In seguito allo sgombero da parte della polizia, l’11 maggio, dell’insediamento abusivo di Ponte Mammolo, dove da anni vivevano sia rifugiati sia migranti in transito, centinaia di africani – soprattutto eritrei – si sono ritrovati a dormire nelle strade vicine alla stazione Tiburtina. Il centro culturale Baobab, normalmente destinato ad attività diurne, ha aperto le sue porte per dare loro un riparo, arrivando a ospitarne 600 a notte. Ogni sera, di fronte al centro , si forma una fila interminabile nell’attesa del pasto fornito dai volontari e da altre associazioni che sono venute a dare una mano. Alcuni abitanti del quartiere portano cibo e vestiti. Altri, giochi per bambini. I romani hanno mostrato una solidarietà che ha stupito la stessa amministrazione cittadina. Messe sotto pressione, le autorità – che avevano ordinato la distruzione dell’insediamento di Ponte Mammolo – hanno aperto un centro d’accoglienza transitorio accanto alla stazione Tiburtina.

Uomini per lo più, i migranti sono spesso adolescenti: un segno evidente che il presidente-dittatore eritreo Isaias Afeworki ha esteso ulteriormente il raggio della sua repressione, arrivando a imporre il servizio militare obbligatorio e a durata indefinita perfino ai ragazzi di 15 anni. Nonostante i legami esistenti tra l’Italia e la sua ex colonia e la presenza in Italia di una comunità stabile da decenni, gli eritrei puntano piuttosto all’Europa del nord. Sanno che le condizioni garantite ai richiedenti asilo sono migliori in Germania o in Svezia e vogliono raggiungere quei paesi. Usano l’Italia come paese di transito. Non si fanno registrare per evitare di restare impigliati nelle maglie del regolamento di Dublino, che li obbligherebbe a fare la richiesta nel “primo paese sicuro” di arrivo.

E le autorità lasciano fare: a partire dal 2014 le procedure di identificazione sono state piuttosto approssimative. L’Italia puntava a liberarsi al più presto di un flusso di migranti che non era capace di gestire. Il loro numero è aumentato in seguito alla chiusura della frontiera di Ventimiglia con la Francia e del Brennero con l’Austria. I migranti bloccati aspettano che la situazione si calmi per riprendere il loro viaggio. Non sono molto al corrente delle discussioni tra gli stati membri sulle quote, i resettlement, e la polemica sulla loro mancata identificazione tra l’Italia da una parte, e la Francia e la Germania dall’altra.

“La chiusura delle frontiere è legata a una sorta di mercanteggiamento prima del Consiglio europeo”, assicura un alto funzionario del ministero dell’interno italiano, che non è affatto ottimista sulla possibilità dell’Italia di ottenere una ridistribuzione a livello europeo dei richiedenti asilo, come auspicherebbe Roma. In un’intervista al Corriere della Sera, il 14 giugno, il primo ministro italiano Matteo Renzi ha detto che se l’Europa non dovesse accettare le sue richieste, lui avrebbe pronto un “piano B”. Leggendo le sue parole, tutti si sono ricordati il precedente del 2011. Sotto pressione per l’arrivo di migliaia di giovani nordafricani in seguito alle rivolte arabe, il governo italiano guidato da Silvio Berlusconi aveva rilasciato circa ventimila visti temporanei ad altrettanti tunisini per circolare nello spazio Schengen. Renzi vuole fare la stessa cosa? “Non ci sono le condizioni politiche. I numeri sono diversi. Se facciamo una cosa simile, tutta l’Europa ci salta al collo”, dice il funzionario del ministero dell’interno.

Le disparità tra gli stati membri spiegano in parte i dissidi. Alcuni danno un grande contributo: l’Italia e la Grecia, innanzitutto, perché sono in prima linea. A loro spetta la prima accoglienza, dal momento che tutti i migranti transitano sul loro territorio. Ma i tassi di riconoscimento dello status di rifugiato sono così bassi in Grecia che nessuno fa domanda di asilo in questo paese. Roma, da parte sua, assicura gran parte del soccorso in mare, ma le garanzie che offre ai richiedenti asilo sono troppo ridotte per indurli a restare. A titolo d’esempio, sui 42.425 siriani sbarcati in Italia nel 2014, solo 502 hanno fatto domanda di protezione in Italia. Sui 170.100 migranti arrivati nel 2014, appena 64.886 hanno fatto richiesta in Italia, secondo il ministero degli interni. Gli altri hanno continuato il loro viaggio in direzione nord, approfittando della tendenza delle autorità italiane a voltarsi dall’altra parte quando si trattava di identificarli.

Migranti pachistani arrivano sulla spiaggia dell’isola greca di Kos, il 4 giugno 2015. (Dan Kitwood, Getty Images)

La Svezia e la Germania sono di gran lunga gli stati dell’Ue più generosi: il 56 per cento dei 123.600 siriani rifugiati in Europa hanno fatto richiesta in questi due paesi, che, insieme alla Bulgaria, alla Svizzera e ai Paesi Bassi, garantiscono il 70 per cento dell’accoglienza. La Francia è tra gli ultimi paesi dell’Ue, con cinquemila siriani rifugiati dall’inizio del conflitto. Eppure, è tra quelli che non solo si oppongono alle “quote” ma frenano anche sull’idea di ogni “meccanismo di ripartizione” dei richiedenti asilo.

Sulla stessa linea si trovano la Spagna, che vuole che l’accoglienza sia ripartita su base volontaria, e i paesi dell’Europa centrale e baltica, che si considerano troppo poveri per aprire le loro porte. Parigi si dice pronta a fare un gesto, a condizione che i migranti siano identificati al loro arrivo in Italia e in Grecia (così da poterli in caso rinviare in quei paesi) e “selezionati” in “centri di transito e smistamento” (hotspot), in modo da distinguere i richiedenti asilo dai “migranti economici irregolari”, da espellere immediatamente via Frontex, l’agenzia europea di sorveglianza delle frontiere esterne.

I rimpatri sono impossibili

L’Italia è consapevole che non potrà opporsi alla proposta francese degli hotspot. “Non possiamo continuare a fare quello che abbiamo fatto nel 2014 e all’inizio del 2015. Non possiamo lasciar passare i migranti senza identificarli. Abbiamo fatto i furbi e ora ne pagheremo il prezzo”, dice l’alto funzionario italiano. E aggiunge: “Ma si tratta di una falsa discussione: non è possibile esaminare una richiesta d’asilo in fretta in poche ore. Saremo costretti a mettere i richiedenti asilo in centri chiusi, il che è contrario alle nostre leggi. E poi: cosa succederà con quanti vedranno la propria richiesta rigettata?”.

L’espulsione non è possibile, perché l’Italia non ha accordi di rimpatrio con la maggior parte dei paesi d’origine dei cosiddetti “migranti economici” che sbarcano sulle sue coste, come i cittadini del Senegal o del Gambia. “Non possiamo fare nulla con loro. Li chiuderemo in centri di detenzione e poi li rilasceremo con un decreto d’espulsione che intima loro di lasciare il paese entro sette giorni. Rimarranno senza documenti nello spazio europeo. Quando i francesi se ne accorgeranno, grideranno di nuovo”.

Ma perché l’Europa ha tanta paura dei migranti? Come è possibile che un’unione continentale di 500 milioni di abitanti non riesca a trovare un’intesa per ripartirsi l’accoglienza di alcune decine di migliaia di persone, per lo più giovani e spesso con un alto livello d’istruzione, e che potrebbero riempire il suo gap demografico? La crescita dei movimenti xenofobi – il Front national in Francia, la Lega nord in Italia, Pegida in Germania, il Partito del popolo danese in Danimarca – spingono i governi al potere, anche quando sono di centrosinistra come in Francia e in Italia, a portare avanti politiche di destra. Tutti gli sforzi sono concentrati sulla dissuasione e non sull’integrazione di quanti arrivano.

Il governo di Matteo Renzi ha chiuso l’operazione Mare nostrum, lanciata dal suo predecessore Enrico Letta, che in un anno aveva permesso di salvare 170mila migranti in alto mare. Gli ungheresi vogliono costruire un muro alla frontiera serba, sul modello di quello già realizzato dalla Bulgaria e dalla Grecia alla frontiera con la Turchia.

Secondo il progetto The migrant files, l’Unione europea ha speso almeno 13 miliardi di euro dal 2000 per finanziare un intero arsenale di controllo e rimpatri. Costruendo muri e inasprendo le proprie politiche, gli stati membri contribuiscono essi stessi a creare dei “punti di raccolta”, secondo l’espressione cara al ministro dell’interno francese Bernard Cazeneuve, che è l’architetto del recente blocco della frontiera franco-italiana. Un blocco che ha avuto come effetto principale proprio quello di creare un punto di raccolta tra Mentone e Ventimiglia.

Per giustificare le loro politiche, i dirigenti europei scaricano ogni responsabilità sulle rispettive opinioni pubbliche nazionali, che sarebbero refrattarie a ogni idea di accoglienza, tanto più in un periodo di crisi economica e sociale. Ma quest’affermazione corrisponde alla realtà? Nulla di meno sicuro. La solidarietà dal basso che sta emergendo un po’ dappertutto sembra mostrare che esiste un’altra Europa, assai più avanzata di quella dei governi.

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