Chi ha cominciato a lavorare a 23 anni nel 1996 potrebbe ricevere 900 euro di pensione quando avrà 64 anni. Questo perché è soggetto al sistema contributivo, con un tasso di rimpiazzo (cioè la percentuale sull’ultimo reddito percepito) del 70 per cento. Chi ha cominciato a lavorare a 23 anni nel 1974 con il regime retributivo andrebbe in pensione a 62 anni ricevendo 1.342 euro, con un tasso di rimpiazzo del 76 per cento.
C’è quindi un problema di equità tra le generazioni, che rende fondamentale estendere a tutti le regole del sistema contributivo. Bisogna, inoltre, garantire flessibilità alle scelte di pensionamento e permettere a chi decide di ritardare l’andata in pensione di ottenere somme più alte. È un modo per rispondere a esigenze diverse e a diverse lunghezze auspicate (o imposte dal mercato del lavoro) della vita lavorativa, sia per gli uomini sia per le donne, sia per i dipendenti pubblici sia per quelli privati.
Non è vero che questa riforma renderebbe più difficile il riassorbimento della disoccupazione giovanile. Al contrario: come dimostra l’esperienza internazionale, gli ultrasessantenni hanno un ruolo cruciale nel facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Del resto, a casa nostra abbiamo due primati poco invidiabili: quello della quota più alta di giovani che non lavorano né studiano e quello di chi ha vite lavorative più brevi. Lavorando più a lungo possiamo ridurre la pressione fiscale che grava sui giovani e aumentare le assunzioni e il rendimento dell’istruzione tra chi ha meno di 24 anni.
Internazionale, numero 925, 25 novembre 2011
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