Il giorno che nostra figlia più piccola ha lasciato casa, la persona a cui ho pensato di più è stata mia mamma. Come al solito si tratta di un miscuglio di emozioni. Il primo pensiero che affiora, e che si ripresenta ogni volta che ci sono novità riguardo uno dei ragazzi è: “Devo chiamare ma…”, prima di riuscire a tornare con i piedi per terra, rendendomi conto che non è possibile.
Com’è possibile che continui a dimenticare, dopo tutti questi anni dalla sua morte, che non posso telefonarle per aggiornarla delle novità?
Il secondo pensiero è una consapevolezza a cui sono arrivata solo recentemente: quando lasciai casa per andare all’università lei deve aver vissuto la stessa esperienza che sto vivendo io adesso. A casa ero io la più piccola, quindi partendo ho lasciato il nido vuoto. E non riesco a evitare di chiedermi qualcosa che a quei tempi non ho minimamente affrontato, ossia: “Cosa avrà provato lei?”.
Senza girarsi indietro
Tutto ciò che ricordo è il mio arrivo a Hull. Non mi ricordo quando ho caricato l’auto e ho lasciato la casa della mia infanzia. Volevo disperatamente andarmene quindi probabilmente avrò gridato “Si parte!!”, senza mai girarmi indietro. Ricordo il momento in cui sono entrata nella mia nuova stanza nei dormitori studenteschi e che, pur dovendo condividere la stanza con qualcun altro, ho pensato: “Evviva! Questa è mia!” e ho cominciato a immaginare come quella stanza sarebbe stato il posto dove dare forma alla mia nuova vita fatta di libertà. Libertà dai miei genitori, questo era tutto ciò che volevo. Non ricordo neanche di averli salutati, né se qualcuno di noi abbia pianto.
Ora, nel momento stesso in cui ho abbracciato la nostra figlia più piccola, le lacrime hanno cominciato a scendere. E mia madre? Avrà pianto anche lei per tutta la via di ritorno da Hull a Brookmans Park, circa quarant’anni fa? Ormai non glielo posso più chiedere.
Appena tornati a casa i miei fecero le valigie per andare in Canada a trovare il fratello di mamma e la sua grandissima famiglia, e immagino che sia stato per loro sia un modo per vivere un’avventura sia un’attività per scacciare via i pensieri.
Niente tempo per il dolore qui. Siamo partiti per i nostri viaggi. Ci siamo fatti forza e via, partiti.
Le nostre madri non potevano sopportare che noi fossimo libere, i nostri padri non potevano tollerare che noi facessimo sesso
Penso a mia madre anche perché ho appena finito di leggere la bozza dell’autobiografia di Deborah Orr che sarà pubblicata con il titolo di Motherwell. Il titolo si riferisce sia alla città dove lei era cresciuta sia alla relazione tra lei e i suoi genitori, e in particolar modo tra lei e la madre, che non sembra essere stata una delle migliori.
È scioccante quanto si somiglino la sua e la mia esperienza: entrambe siamo cresciute nello stesso periodo, i cari vecchi strani anni settanta così caratterizzati da complessi e bigottismo riguardo la classe sociale, il sesso e cosa una ragazza dovesse o non dovesse fare. Anche Deborah aveva dovuto sfidare la madre per provare a vivere la vita a modo suo, a costo di enormi sacrifici, e sperimentando l’impossibilità di conciliare due spinte opposte: sfidare i propri genitori e desiderare la loro approvazione. E di nuovo come nel mio caso, la soluzione di Orr è stata di mantenere segreti quegli aspetti della sua vita che i suoi avrebbero disapprovato.
A volte mi sono sentita come se il libro stesse leggendo la mia mente e questa è una sensazione sempre meravigliosa e rivelatrice.
Le ali tarpate
Sono state fatte osservazioni molto pertinenti riguardo al perché le donne della generazione delle nostre madri ci abbiano cresciuto come hanno fatto. Totalmente soggiogate dalla società patriarcale, avrebbero potuto spronarci a ottenere la libertà che a loro era stata negata. Invece si sono fatte guidare dall’amarezza e dalla gelosia. E questo le ha portate a volere per noi la stessa prigione che loro erano state costrette ad accettare. Se a loro era toccata quella merda, perché mai noi avremmo dovuto poter fuggire librandoci in volo come gli uccelli? Non potevano tollerarlo.
E quindi hanno provato, con un livello di successo variabile, a tarparci le ali. Lo stesso vale per i nostri padri. C’è un’altra descrizione nel libro in cui il padre di Orr la ricopre di insulti per aver fatto sesso con il suo ragazzo. E questo mi ha ricordato qualcosa di molto simile a ciò che ho vissuto in prima persona. Le nostre madri non potevano sopportare che noi fossimo libere, i nostri padri non potevano tollerare che noi facessimo sesso. Gesù, era un vero caos!
Eppure, come tutti i bravi figli, noi amavamo i nostri genitori. Insieme alla rabbia ho saputo riconoscere quell’amore instancabile descritto da Deborah. Anche ora che entrambi i miei sono morti, torna il vecchio istinto, quella necessità di prendere il telefono e raccontargli qualcosa che li renderebbe orgogliosi. Qualcosa in grado di farmi sentire al centro della loro attenzione, conosciuta e capita davvero. Era chiedere troppo? Forse sì.
(Traduzione di Mariachiara Benini)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.
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