Otto anni fa ho scritto una canzone sul Natale e l’ho fatto per denunciarne il lato frivolo. Era la mia versione di un canto natalizio laico, in cui il significato del Natale è fermamente umanista e la gioia tipica del periodo ha la forza di spingerci a combattere l’oscurità e le difficoltà della vita.
In perfetto spirito natalizio, quindi, si apre con i risultati di un esame clinico: “Quando qualcuno di molto caro ti chiama per dirti ‘È tutto ok’ è quello che vorresti sentire, anche se sai che nel nuovo anno tutto potrebbe essere diverso.”
Certo, potrà sembrare un inizio un po’ tetro per una canzone che si chiama Joy (Gioia), ma le mie parole erano volutamente realiste. Quest’anno sento ancora di più la necessità di realismo. Le famiglie non colpite, in un modo o nell’altro, dai risultati di un test per il covid saranno davvero poche. La perdita, l’assenza e l’isolamento saranno la nota oscura che si celerà dietro ogni nostro tentativo di fare festa, ma nonostante questo faremo tutti del nostro meglio per celebrare il Natale.
Il testo di quella mia canzone prosegue spiegando che la gioia non cancella la tristezza, ma i due stati coesistono ed è proprio la tristezza a farci apprezzare la gioia. “È grazie all’oscurità che riconosciamo la bellezza di un bagliore di luce”. Le ombre, che sempre sono presenti nella vita, spesso sono anche quello che ci spinge a realizzarci e a godere appieno i momenti di gioia, cercando – anche solo per un po’ – di cancellare le tenebre con la luce. “Ecco perché appendiamo in alto le luci”.
Dello stesso album fa parte una mia cover di Have yourself a merry little Christmas, il cui testo ancora oggi suona come una premonizione. Scritta durante la guerra, è una canzone che parla di lontananza e separazione, del sogno di Natali futuri e della determinazione a resistere fino a quando il sogno potrà realizzarsi.
Mi sono liberata dell’ansia e ho accettato a priori una dose di fallimento
Il testo originale fu ritenuto talmente deprimente da subire diverse modifiche; il primo rimaneggiamento arrivò quando Judy Garland la cantò in Incontriamoci a Saint Louis. La prima strofa – Have yourself a merry little Christmas, it may be your last (Ti auguro un felice Natale, potrebbe essere l’ultimo) – fu, forse comprensibilmente, trasformata in quella nota a tutti: Let your heart be light (Che il tuo cuore sia leggero).
Qualche tempo dopo, Frank Sinatra eliminò un’altra nota di malinconia e i versi Through the years we all will be together/If the fates allow/Until then we’ll have to muddle through somehow (Attraverso gli anni staremo sempre insieme se il destino ce lo permette, fino ad allora ce la dovremo cavare in qualche modo) furono alleggeriti diventando Hang a shining star upon the highest bough (Appendi una stella luminosa al ramo più alto).
Del nostro meglio
A me invece la versione originale è sempre piaciuta. Quest’anno più che mai tutti noi dovremo cavarcela in questa situazione difficile, faremo del nostro meglio e ci impegneremo per resistere stoicamente in attesa di tempi migliori. Credo che nessuno sia dell’umore adatto per articoli o trasmissioni su come organizzare un Natale perfetto.
Tutto ciò mi fa venire in mente – seguitemi, abbiate pazienza – il dottor donald Winnicott e le sue teorie sulla genitorialità. Winnicott fu il pediatra che negli anni cinquanta introdusse la nozione di “madre sufficientemente buona”, ossia quella madre che riesce a soddisfare gran parte delle necessità del suo bambino, ma lo fa sempre meno mano a mano che il figlio cresce. Winnicott sosteneva che in realtà una madre sufficientemente buona fosse migliore rispetto a una “madre perfetta”, perché con lei il bambino apprende ad adattarsi al mondo e ad accettare le delusioni che possono capitare per affrontarle al meglio.
Questo mi riporta al Natale. Quest’anno nessuno di noi potrà vivere un Natale perfetto: che uno buono a sufficienza sia dunque la soluzione migliore?
Mi sono liberata dell’ansia e ho accettato a priori una dose di fallimento. Non potrò stare insieme a tutta la mia famiglia, non verranno a trovarmi gli amici per fare un brindisi o pranzare insieme, comprerò meno regali, insomma sarà tutto in forma ridotta rispetto al solito. Ma è il mio stesso mondo a essersi ristretto negli ultimi mesi e, essendosi ridotte le opzioni a mia disposizione, anche le mie ambizioni si sono ridimensionate. Ora i miei obiettivi sono più piccoli e, spero, più facilmente realizzabili.
Quale potrebbe essere, quindi, un Natale buono a sufficienza per me? Poter stringere a me i miei figli. Con circa una settimana di isolamento, qualche test per il covid e magari un po’ di fortuna, spero che questo sogno possa realizzarsi e che potrò trascorrere qualche giorno al chiuso con quattro persone che amo a chiacchierare, cucinare e ridere, abbracciandole fino a quando non mi imploreranno di lasciarle andare.
E auguro a tutti voi la stessa gioia: vi auguro un Natale buono a sufficienza.
(Traduzione di Mariachiara Benini)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.
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