Chi ha studiato matematica nelle scuole per tredici anni, dalle tabelline alle derivate, che ne conserva in età adulta? Per molti resta solo la memoria della traversata d’un arido deserto senza vita.

L’immagine è falsa ma, certo, l’analfabetismo matematico è indubbio ed è forse il caso più clamoroso delle regressioni che si possono produrre in età adulta e che mettono in discussione l’efficacia degli insegnamenti scolastici e dell’assetto sociale della vita culturale. Non meno grave però è quello che in Francia è stato chiamato analfabetismo geografico.

Negli Stati Uniti per combatterlo dagli anni ottanta è stata introdotta una settimana della “consapevolezza geografica”, da celebrarsi ogni anno in novembre. Ma, nonostante la lodevole iniziativa, una recente indagine del National Geographic tra i diciotto-ventiquattrenni di nove paesi ha rivelato che per conoscenze di geografia i giovani statunitensi sono al penultimo posto, superiori soltanto ai messicani, mentre in testa sono svedesi, tedeschi, italiani, seguiti da francesi, giapponesi, britannici e canadesi.

Studiosi di vari paesi, da Jean-François Thémines a Franco Farinelli, invocano che la geografia non sia insegnata come un accumulo di notizie spogliate di senso, ma come una dimensione significativa e ineludibile di ogni studio storico, sociale, economico. Per la geografia insomma parrebbe valere l’analogo di quel che Saussure diceva per il linguaggio: è troppo importante perché se ne occupino solo i linguisti.

Internazionale, numero 845, 7 maggio 2010

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