I malumori passatisti o apocalittici sull’uso delle tecnologie informatiche nelle scuole pare si vadano diradando.
Ma problemi seri ci sono, come ha mostrato la conferenza internazionale Ocse del settembre 2009 sui “new millennium learners”. Nella media complessiva Ocse più del 90 per cento degli studenti quindicenni sa accedere a internet, ma solo il 50 per cento lo fa quotidianamente da casa e solo una minoranza esigua lo fa, e di rado, a scuola.
Si configurano così diversi livelli di divario tra una minoranza privilegiata e gli altri. Ma soprattutto è evidente la difficoltà delle scuole nel fronteggiare i nuovi problemi, come hanno denunziato su Le Monde Anna Angeli e Florence Durand-Tornare nel maggio scorso.
A parte i problemi di investimento, che cosa rallenta nelle scuole l’uso della rete?
Abbiamo molte rilevazioni singole sugli effetti didattici e culturali positivi di tale uso. Manca però un’indagine sistematica su scala comparativa. La Commissione europea ha ora opportunamente prodotto un rilevante rapporto, curato da Friedrich Scheuermann e Francesc Pedró, per avviare lo studio comparativo degli effetti educativi delle ict, partendo dai casi in cui, come in Norvegia e Hong Kong, le indagini sono state più e meglio approfondite.
Nel rapporto Willem Pelgrum fissa criteri per la futura indagine e da questi e altri contributi già emerge l’importanza di fattori presupposti: le ict agiscono positivamente se e dove sono saldamente acquisite la lingua materna e la matematica.
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