Varata nel settembre 1988 a Bologna, dal 1998 la Magna charta universitatum è diventata il riferimento ideale della European university association e di un Observatory che verifica come procedono le realizzazioni dei princìpi proclamati dal documento.
Da una decina d’anni in settembre i rettori di molte università insieme ad alcuni studiosi si riuniscono a Bologna per esaminare lo stato delle università. C’è in tutto ciò quella quota di ritualità diplomatica che pare inevitabile in incontri e documenti internazionali. Non è la via migliore per dire cose precise. La Charta proclama, per esempio, che le università devono essere autonome, devono concorrere allo sviluppo della società e avere i mezzi per farlo. Giusto, ma di che sviluppo si tratta e chi deve procurare i mezzi necessari? Con atti e con due recenti documenti, il governo conservatore britannico sta tagliando i fondi e chiede alle università di sottomettersi al mercato.
Gli universitari, rompendo la ritualità delle celebrazioni settembrine della Charta, hanno pubblicato sul Guardian un Alternative white paper in defence of public higher education. L’istruzione superiore, dicono, non deve essere controllata dallo stato. Dotata di fondi pubblici, deve rispettare i princìpi della Magna charta e assicurare i benefici pubblici appropriati a una società democratica: saperi critici e scientifici, non solo vantaggi per i profitti di imprese private. La discussione è aperta, chiosa Le Monde, e, si può aggiungere, non riguarda soltanto il Regno Unito.
Internazionale, numero 920, 21 ottobre 2011
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